Centro Napoletano di Psicoanalisi

Senso e metodo in psicoanalisi

Alessandro Garella

1-  Introduzione

Il titolo di questo incontro, ‘Il senso del metodo in psicoanalisi’, si propone come rappresentanza nel linguaggio di una pluralità di contesti di azione psichica. Guardiamo innanzi tutto alla definizione di ‘metodo’ presente nel Vocabolario Treccani:
“«ricerca, indagine, investigazione», e anche «il modo della ricerca», composto di μετα- che include qui l’idea del perseguire, del tener dietro, e ὁδός «via», quindi, letteralmente «l’andar dietro; via per giungere a un determinato luogo o scopo». In genere, il modo, la via, il procedimento seguito nel perseguire uno scopo, nello svolgere una qualsiasi attività, secondo un ordine e un piano prestabiliti in vista del fine che s’intende raggiungere. Talora indica più esplicitamente l’ordine, e anche la regolarità costante con cui si procede; oppure, quando non si faccia riferimento a specifici settori culturali o di ricerca, precisa regole e tecniche particolari che presiedono a certi procedimenti.”
Il termine ‘senso’ a sua volta include un insieme di significati i cui estremi sono, da un lato, il senso come sensazione, impressione, e dall’altro il senso come significato (linguistico). I significati si dispongono in un continuum semantico, che si estende dalla facoltà di ricevere impressioni da stimoli esterni o interni (senso quindi come sensibilità), all’attività degli organi di senso, costitutiva della sensorialità, all’avvertimento di sensazioni interne, di natura fisica o, talora, psichica, all’esercizio della facoltà di sentire e ai suoi rapporti con la coscienza o la consapevolezza in genere, all’indicazione più diretta di uno stato d’animo, una sensazione, un atteggiamento psichico, al sentimento, al contenuto e al valore significativo di un elemento linguistico, fino a giungere all’orientazione, alla direzione secondo la quale si effettua un movimento.
L’espressione ‘il senso del metodo in psicoanalisi’ dunque può rappresentare o meglio può fare da rappresentanza di una rete semantica, essendo sempre pronta a rappresentare, cioè a riportare, per ogni contesto, la rappresentazione più adeguata o l’area psichica che cerca accesso alla coscienza o alla rappresentazione. Da qui un primo quesito: il rappresentante non presenta nulla di sé, come fosse una forma vuota che si riempie di significato in base all’occasione, oppure il rappresentante presenta un suo senso/significato riferito a se stesso? La risposta è molto importante per la psicoanalisi, poiché concepire il metodo come forma e orientazione vuota è una cosa; altra cosa è pensarlo come forma che assomma in sé contenuti, significati variabili e contingenti, a cui aggiunge un significato idiosincratico, ‘formale’ nella misura in cui il metodo è appunto forma.
Entrambi i termini e le nozioni che esprimono, metodo e senso, hanno a che fare con l’idea di percorso, via direzione. Il metodo, così inteso, esprime anche l’idea di un orientamento, di una disposizione di fondo al senso, l’idea della possibilità di trovare un senso sia attraverso che alla fine del percorso. Il senso a sua volta, nell’insieme dei significati sopra riportati, appare intrinsecamente vettorizzato da un punto d’arrivo e uno di fine: il senso di qualcosa è dato dal percorso dalla traccia, impatto o registrazione di un qualcosa e il riconoscimento di quel certo qualcosa. Tuttavia, la direzionalità intrinseca ai due termini appare di tipo diverso: quella implicata dal metodo presuppone l’esistenza di un senso e mira alla definizione e verifica del senso di partenza, inteso come significato e contenuto; la direzionalità del metodo appare infine più vicina alla significazione di qualcosa che s’ignora, del tutto o in parte.
L’orientamento implicito nel significato di ‘senso’ appare più vicino alla messa in forma di un contenuto, alla trasformazione di uno stato grezzo e caotico in uno ordinato e/o coerente e/o intendibile percettivamente; la direzionalità del senso perciò è connessa alla creazione di un contenuto a partire da ciò che non ha forma psichica.
Il metodo, inoltre, è direzionato da una sorta di principio del rapporto mezzi/fini, in base al quale il suo processo di effettuazione o svolgimento è retto dall’implicazione reciproca di mezzi e fini specifici e delimitati, la quale conferisce al procedimento stesso la sua determinazione. In altre parole il metodo ha un punto di partenza ed uno di arrivo: il primo gli viene dato (dalla teoria, da un’ipotesi), il secondo si attua nella costruzione di un obiettivo, l’oggetto o il risultato della ricerca, secondo la determinazione congiunta della teoria e del procedimento stesso.
Il senso, come qui ne sto parlando, è orientato da principi più vicini alla scarica attraverso una qualche forma di trasformazione (per es. trasduzione nel tipo di energia, trascrizione nella forma del codice, trasformazione vera e propria nella forma del senso come rappresentazione). ‘Dare un senso’ appare così come ‘l’atto fondamentale’ (Bloch) del metodo, l’atto che fornisce un senso, quello dato dalla teoria, a qualcosa che ‘fa’ senso.
Il metodo e il senso si affrontano come due facce della stessa realtà anche riguardo il proprio oggetto:

a) l’oggetto del metodo è l’oggetto della teoria, costruito e ritrovato, previsto come idea e rinvenuto come fenomeno. Questo idealmente, perché possono darsi tutti gli esiti possibili nell’applicazione del metodo: il completo accordo fra teoria e metodo, per cui l’oggetto descritto e previsto teoricamente è trovato/costruito metodicamente; oppure il reperimento di differenze di grado diverso, che vanno dalla relativa difformità dell’oggetto trovato rispetto a quello previsto, fino ad una completa incongruità del risultato rispetto alle previsioni teoriche o addirittura una netta disconferma dell’oggetto teorizzato da parte dell’oggetto Questo aspetto è fonte dell’insieme di problemi rientranti nella questione generale se sia necessaria una modifica o estensione della teoria o se la teoria richieda una modifica metodologica, per es. con lo sviluppo di tipi di metodo che finalizzino il reperimento di una parte della fenomenologia, la cui rappresentazione teorica è rimasta implicita.
b) l’oggetto del senso, a sua volta, è una trasformazione il cui fine è imprevisto e la cui fine è indeterminabile, perché il senso si produce prima o durante l’esperienza che se ne fa o prima del momento in cui lo si Si tratta della percezione prima della comprensione, dell’emozione prima della rappresentazione, del vissuto prima della riflessione. Spesso esso è una quantità o una qualità il cui senso è nell’indicazione di una possibilità la cui esistenza richiede una forma, appunto una messa in senso che trasformi la possibilità in esistenza, in un codice adatto a coglierne il potenziale espressivo.
Con queste premesse, di certo astratte e sintetiche, affronterò il tema de ‘il senso del metodo in psicoanalisi’ in alcuni ambiti generali, scelti con una certa inevitabile arbitrarietà, che esporrò sinteticamente come campi di discussione e approfondimento.

2-  Il ‘metodo’ nelle Opere freudiane

Le definizioni più note del metodo psicoanalitico e della stessa psicoanalisi in quanto metodo si ritrovano in due testi degli anni ’20, la voce ‘Psicoanalisi’1 inserita nel 1923 nel Dizionario di sessuologia di Marcuse e quella scritta2 per l’Encyclopaedia Britannica.
La prima contiene questa definizione: “PSICOANALISI è il nome: 1) di un procedimento per l’indagine di processi psichici cui altrimenti sarebbe pressoché impossibile accedere; 2) di un metodo terapeutico (basato su tale indagine) per il trattamento dei disturbi nevrotici; 3) di una serie di conoscenze psicologiche acquisite per questa via che gradualmente si assommano e convergono in una nuova disciplina scientifica.” (Freud 1922 p.439)
La seconda voce riporta quanto segue:   “Egli [Freud] coniò il nome “psicoanalisi”, che, con il passare del tempo, assunse due significati. Oggi esso designa: 1) un particolare metodo di trattamento delle sofferenze nevrotiche; 2) la scienza dei processi psichici inconsci, alla quale viene dato anche l’appropriato nome di “psicologia del profondo”.” (Freud 1925 p.224)3
        Una ricognizione, pur non sistematica, delle occorrenze del termine ‘metodo’ nelle opere freudiane, con riferimento all’uso filosofico-scientifico ed esclusione di quello comune e colloquiale, mostra che esse possono rientrare in quattro gruppi selezionati in base alle aree di riferimento:

a)clinico: metodo (psico)terapeutico, di guarigione, di cura.
b)terapeutico: metodo catartico, ipnotico, interpretativo, dell’anamnesi.
c)empirico-osservativo: metodo sperimentale, di esplorazione, di investigazione
d)teorico (relativo all’apparato psichico): metodo di lavoro (del sistema P-C), repressivo.

Da questa brevissima disamina, sembra emergere un uso freudiano del termine ‘metodo’ con significati diversi, dipendenti dal contesto, nonostante si sia imposta nel tempo la convinzione, come scrive Kaës4, della “notevole solidarietà nella psicoanalisi tra procedura d’investigazione, il metodo di trattamento, la teorizzazione della vita psichica e lo spazio interno dell’analisi”. I quattro gruppi di significato precedenti si prestano ad associarsi a formare coppie.
I gruppi a e b, infatti, fanno entrambi riferimento al campo clinico-terapeutico, in cui il metodo concerne l’azione terapeutica, con l’aggiunta della specificazione di psicoterapeutico per differenziarlo da quello neurologico o quello clinico-sistematico. In questo ambito il metodo psicoanalitico generale appare comprendere in sé metodi specifici, in primis quello dell’interpretazione, dei sogni, dei sintomi e dei contenuti psichici in generale, e poi quello delle libere associazioni. I metodi dell’interpretazione e delle libere associazioni a loro volta vengono definiti ora metodi clinici specifici ora tecniche adoperate nella clinica, all’interno del metodo psicoterapeutico proprio dell’analisi. Questo punto va sottolineato perché mostra come sia sempre possibile una sovrapposizione di livelli nell’uso del termine. Il metodo psicoanalitico, in questa accezione di significato, viene confrontato da Freud sostanzialmente con due altri metodi: quella catartico di Breuer, al quale riconosce una sorta di primogenitura nella psicoterapia, e quello psichiatrico tedesco di Bleuler, il metodo clinico-sistemico.5
        I gruppi c e d, dal canto loro, contengono significati che fanno riferimento al piano empirico-osservativo, cioè all’azione investigativa e sperimentale finalizzata a cogliere fenomeni e evidenze all’interno del campo di osservazione costituito dalla psicopatologia.6 A questo livello gli obiettivi del metodo sono l’osservazione, la descrizione, la differenziazione, la comparazione e la catalogazione. Nelle accezioni dei gruppi c e d il termine ‘metodo’ implica una finalità ultima costituita dalla verifica e/o dalla costruzione di ipotesi in vista dell’elaborazione di concetti e teorie sull’apparato psichico e sul suo funzionamento. In particolare, all’interno del discorso teorico, Freud qualifica come ‘metodi di lavoro’ certi aspetti del funzionamento psichico o di parti dell’apparato, nel senso del riconoscimento e definizione di processi funzionali organizzati e finalizzati, come la rimozione, o caratterizzanti sistemi o istanze, come il sistema P-C. In questo particolare significato è la nozione di lavoro ad essere convocata come asse centrale dell’attività psichica e dell’intera disciplina psicoanalitica. Il riferimento empirico-osservativo e quello teorico s’interfacciano con costanza nel pensiero freudiano, finendo per favorire una certa prossimità o giustapposizione dei significati di metodo prima distinti nei gruppi c e d.

3-  Il metodo analitico: categorie, modelli, concetti.

Oltre che a un percorso o una procedura conoscitiva, il concetto di metodo rinvia alle modalità o categorie epistemiche generali che lo inquadrano, tra cui quelle
classiche filosofiche: possibilità, esistenza, necessità.7 Il metodo psicoanalitico, infatti, costituisce la procedura che, partendo ogni volta dall’ipotesi dell’inconscio, ne esplora la possibilità conoscitiva attraverso l’allestimento di una situazione e di una procedura opportune; identifica e descrive fenomeni psichici utilizzabili come prove (indirette) dell’esistenza dell’inconscio e infine rileva, come fa Freud nell’Interpretazione dei sogni, la necessità dell’ipotesi dell’inconscio, che va a sostenere la convinzione dell’esistenza dell’inconscio stesso.
L’ipotesi dell’inconscio rappresenta epistemicamente una possibilità formale, non sperimentabile in via diretta; esprime una necessità logica per la spiegazione di numerosi fenomeni o atti psichici;8 serve a sorreggere la convinzione dell’esistenza di una realtà psichica, di cui la coscienza è solo una parte. L’inconscio per Freud infatti non è un oggetto reale, di esperienza diretta, ma le formazioni e gli effetti ad esso riferibili attestano la necessità epistemica della sua esistenza, al punto da condurre Freud e altri dopo di lui (Klein, Bion, Winnicott) a concepire un tipo di realtà, quella psichica, che la coscienza non percepisce pur facendone parte.
La prova, la posizione dell’inconscio, dunque è logica e non sperimentale cioè ottenuta per inferenza: l’inconscio è posto da Freud come condizione di possibilità dei fenomeni qualificati come ‘psichici’. Se l’inconscio è un’ipotesi teorica, allora le prove acquistano importanza ancora maggiore: non basta rilevarle una volta per sempre, ma occorre che ogni volta che si ponga l’ipotesi si avvii il metodo che ricerchi e raccolga i fenomeni da costituire come prove. Perciò la psicoanalisi, metodo e processo, deve essere costruita in e per ogni trattamento; perciò l’analisi non può essere solo competenza cognitivo-intellettuale ma deve fondarsi sull’acquisizione di una capacità che faccia da substrato all’adozione di procedimenti e metodi che portino prove per la convinzione dell’ipotesi dell’inconscio e per l’apprezzamento del valore epistemico, cioè scientifico, e clinico, cioè terapeutico, della Psicoanalisi.
Al concetto di ‘metodo’ può relazionarsi quello di ‘modello’, che l’enciclopedia Treccani definisce così: “costruzione schematica, puramente ipotetica o realizzata materialmente, di origine anche intuitiva, con cui viene rappresentato globalmente o soltanto in parte l’oggetto di una ricerca”. Il modello è uno schema, intellettuale e/o concreto, finalizzato alla verifica di ipotesi e alla realizzazione di esperimenti fattuali e controfattuali. Esso può ispirarsi a una modellistica e/o a principi, che rientrano nel campo di studio della metodologia. Senza volere andare oltre questa annotazione, può essere utile ricordare che il modello psicoanalitico si appoggia, più o meno esplicitamente, ad alcuni metodi e principi, come è stato chiarito da D. Rapaport nella metà del secolo scorso.9 Secondo questo autore il modello psicoanalitico terapeutico è un modello psico-logico e non solo logico; esso utilizza un metodo che è quello clinico o meglio storico-clinico, da cui discendono immediatamente tre concetti: quelli di continuità psichica, di significato e di determinismo. Il primo viene considerato da Rapaport un ‘postulato fondamentale’ della psicoanalisi; il secondo e il terzo sono ‘corollari’ del concetto di continuità. Il modello psicoanalitico della psiche secondo Rapaport, in sintesi, implica la continuità della vita psichica (e della realtà psichica, va aggiunto) e questa implica che nella vita psichica stessa vi sia significato e determinazione. Mentre i primi due concetti, continuità e significato, sono impliciti nelle scienze ideografiche, il determinismo è una ‘caratteristica distintiva’ delle scienze nomotetiche. Rapaport mostra come da questo modello e dal metodo storico-clinico discendano altri concetti, fra cui quello stesso di inconscio; egli definisce inoltre una gerarchia epistemica per il metodo analitico della quale soltanto un rigoroso studio metodologico può rilevare presenza, articolazioni, implicazioni.
Al discorso di Rapaport si può aggiungere che sovente l’espressione ‘metodo psicoanalitico’ risulta ambigua, in quanto riferita ora ad un insieme di metodi (associazioni libere, attenzione fluttuante, interpretazione, transfert, sono quelli più frequentemente citati in letteratura), ora al dispositivo analitico nella sua unitarietà. Non si può sottacere, tuttavia, la presenza di altri modelli, di tipo logico-sperimentale, dal modello dell’arco riflesso di Freud, al modello cosiddetto ‘idraulico’, ai modelli evolutivi, a quelli di tipo relazionale e ermeneutico, a quelli più vicini alle neuroscienze.

4-     Una procedura per ‘afferrare il senso’: il metodo psicoanalitico come sistema semiotico.

Quanto detto finora vale come premessa per concepire l’esercizio della facoltà di sentire, uno dei significati del termine ‘senso’, come un processo che il metodo deve informare proceduralmente per aggiungere (nell’analista, ma in maniera diversa anche nell’analizzando) una competenza a una capacità o disposizione. Il metodo offre a chi abbia una capacità analitica la possibilità di utilizzare una procedura per ‘afferrare il senso’10, cioè per translare11 sul piano della comprensione e del significato ciò che altrimenti rimarrebbe all’interno del piano del vissuto e della sensibilità. Per completare questa premessa, ricordo che il metodo psicoanalitico costituisce una procedura direzionata dal legame con una teoria che: a) sostiene che tutto lo psichico ha senso, e non solo lo psichico conscio; b) prevede l’esistenza di un senso significabile dovunque ci sia dello psichico; c) concepisce il senso non solo come significato ma anche e soprattutto come espressione o manifestazione di una carica vitale, detta ‘pulsione’, orientata alla scarica attraverso una messa in forma, definita ‘azione specifica’. Se la teoria metapsicologica costituisce il campo di possibilità epistemica e ontologica per la psicoanalisi, il metodo dal canto suo consiste in una procedura per muoversi all’interno di tale campo, per verificare e realizzare le ipotesi e i concetti teorici, ‘facendo senso’ nel suo stesso procedere.
La funzione metodica sopra definita appunto ‘afferrare il senso’ si svolge attraverso la verifica che ogni sensazione e ogni significazione posseggano una determinazione in quanto parti di una catena associativa. In questo la filiazione del metodo analitico dal più generale metodo storico-clinico è evidente. L’efficacia funzionale del metodo quindi consiste nella verifica di un aspetto della teoria (concernente per es. i sistemi, le istanze, le pulsioni, ecc.) e nello stesso tempo nella constatazione della determinazione o meglio sovradeterminazione dei contenuti psichici, rinviante al principio della continuità della vita psichica e alla necessità dell’ipotesi dell’inconscio. È da notare che in psicoanalisi il metodo, soggiacendo come sistema di pensiero agli stessi processi utilizzati dalla psiche per altre funzioni, non si presta a una modellizzazione secondo uno schema logico completo, algoritmico, ma dipende sempre dalla componente empirica e contingente data dal campo e dal momento individuale di applicazione. Nella sua operatività, inoltre, il metodo analitico mette in disparte la questione della natura e origine del senso, lasciandola alla teoria dell’apparato psichico e all’impalcatura costituita dalla metapsicologia o dalla teorie che intendono estenderla o sostituirla.
Concepito come procedimento per ‘afferrare il senso’, il metodo psicoanalitico, qui ancora inteso in generale, comprensivo tanto del riferimento clinico-terapeutico quanto di quello teorico-osservativo, presenta la caratteristica fondamentale di essere un procedimento semiotico prima ancora che semantico. A questo punto torna utile il ricorso al pensiero di C.S. Peirce, che scrisse: “il solo pensiero che è possibile conoscere è, senza eccezione, il pensiero in segni. Perciò ogni pensiero deve necessariamente essere pensiero di segni.” (CP 5.260) Si noti la prossimità con il pensiero freudiano sul percorso che nell’apparato psichico si sviluppa a partire dalle percezioni e dalle sensazioni, passando da un tipo di segno all’altro: dalle tracce mnestiche di crescente complessità alle rappresentazioni in forma sensoriale, alle immagini, alle rappresentazioni simboliche linguistiche, le rappresentazioni di parola. A Peirce si deve la nota classificazione dei segni per categorie di conoscenza in Icone, Indici e Simboli o Codici, ciascun tipo essendo identificato da un particolare carattere. Ne riassumo in breve le caratteristiche differenziali per l’interesse che rivelano per la ricerca metodica psicoanalitica.
Un segno iconico deve la sua capacità di significare dal fatto che il significante è, per qualche aspetto, simile al significato: onomatopee (per es. il tic-tac dell’orologio), ritratti, caricature, mappe, ecc. condividono questa caratteristica. Per riferirsi all’oggetto “cane” unicamente con un’icona, sarà necessario usare una fotografia, un filmato o il disegno di un cane, oppure far sentire il suo latrato o il suo odore. Per l’Icona vale il carattere di similarità.12 Il segno indicale è realmente determinato dall’oggetto, trovandosi in un rapporto fattuale con esso ovvero in uno di vicinanza immediata nello spazio e nel tempo. Seguendo l’esempio precedente, se per l’oggetto “cane” si vuole usare unicamente un indice, bisognerà indicare un cane. Per quanto l’indice intrattenga con le cose un rapporto naturale, non significa di per sé, ma è necessario qualcuno che sia capace di leggerlo e gli attribuisca un certo valore. Esempi: fotografia, fumo, firma, l’impronta digitale. Per l’Indice vale il carattere di contiguità fisica.13
        Il simbolo si riferisce all’oggetto in virtù di una legge.  Mentre le icone e gli indici di ‘cane’ sono di comprensione generale e posseggono qualcosa di intrinsecamente canino, il simbolo esprime una relazione segnica arbitraria, in quanto istituisce ed esprime un legame tra significante e significato che in sua assenza non vi sarebbe. La sua decodifica dipende dalla conoscenza del codice. Esempio: la maggiore parte dei segni del codice della strada, quelli della matematica, e naturalmente il linguaggio umano. Per il Simbolo vale il carattere di arbitrarietà.14
        Il ricorso ai concetti peirciani è stato più volte auspicato (ma anche criticato) in campo analitico15 per le notevoli affinità tra semiosi peirciana e teoria psicoanalitica del senso. Il metodo analitico, infatti, è orientato da una premessa – che lo psichico sia caratterizzato da sistemi e tipi di pensiero retti da regimi, processi e finalità diverse – per alcuni dei quali la significazione comunemente intesa, quella simbolico-verbale del linguaggio, non garantisce trasparenza. Il processo primario non è trasparente al linguaggio comune, mentre i processi secondari, embricati strettamente con la rappresentazione verbale, sono sempre in grado di accedere alla coscienza. Il processo primario è prossimo al funzionamento corporeo; i processi secondari aderiscono alla funzione significante, metaforizzante e compromissoria del linguaggio16. La teoria analitica concepisce perciò processi psichici diversi, portatori di senso e seguenti vie di significazione diverse: da quella contrassegnata dalla scarica, a quella che passa per il gesto come segno fisico, a quella ancora che passa all’intendersi vocale, fino a giungere al linguaggio A questo ultimo livello le componenti senso-motorie, iconiche e indicali nel senso peirciano, vengono sussunte e sopravanzate da quelle simboliche e linguistiche, tuttavia senza che vadano mai perdute o radicalmente distanziate le origini corporee.
Il metodo analitico, in conclusione, presenta una dimensione semiotica giacché presuppone che, per avere conoscenza e favorire la modifica del funzionamento psichico e dell’attività di pensiero, di questi ultimi si possa, anzi si debba, fare segno prima di darne significato. ‘Fare segno’ rinvia ad azioni quali l’osservare (investimento dell’attenzione), il trattenere nella memoria (comparazione e sviluppo dei ricordi), il trascrivere l’impressione nella modalità sensoriale più adatta (per es. visualizzare i segni in un’immagine, rappresentarli in una sensazione complessa, come una forma uditiva, ecc.), il tradurre il segno così reperito in una formula verbale (descrizione, definizione, enunciato) a partire dal codice di partenza. Il metodo richiede, implicitamente ma fortemente, che l’analista sia in grado di cogliere i segni iconici, quelli indicali e i simboli, differenziandoli e adeguandovisi come primo passo dell’azione di comprensione. Qui nuovamente si può rilevare come una funzione del metodo analitico, che se bene assorbita diviene capacità dell’analista, sia quella di saper cogliere nei segni che tessono la relazione analitica appunto le caratteristiche indicali, iconiche e simboliche, riservando a ciascuna uno specifico trattamento. L’indice spesso è il tipo di segno che l’analista formato riesce a cogliere nel discorso e nell’atteggiamento del paziente; l’icona è il tipo di segno che più si avvicina ai fenomeni d’identificazione, al contatto fra gli inconsci, e possiede una sorta di presenza immediata; il simbolo passa per la parola e spesso è costruito nel e dal discorso analitico.
Come intendere la diversità del modo di trattare i segni in base alle caratteristiche di iconicità, indicalità e simbolicità? Per rispondere al quesito si può partire dall’assumere che secondo le circostanze lo psichico possa rinviare solo a sé, o possa farsi segno di qualcosa, o ancora si costituisca  come  segno di qualcosa  per qualcuno.  Nel primo caso il processo psichico che si riferisce solo a sé è quello che il metodo psicoanalitico coglie al limite corporeo, quando la componente affettiva della psiche, una quantità, si presenta priva di significato ma si fa nondimeno segno attraverso una qualità, la sensazione (si pensi al dolore). La nozione di processo attuale, riferita da Freud a certi fenomeni e sintomatologie, ne coglie la particolare qualità di presenza. Nel secondo caso – il farsi segno di qualcosa – il processo di pensiero è colto dal metodo psicoanalitico come rappresentante di qualcosa, l’oggetto in una qualche forma, che lega ed è a sua volta legato in una relazione.17 Potremmo dire che in questo caso l’apparato psichico incontra l’oggetto con cui inaugura la relazione, ne fa segno e tale segno è prova della presenza di un oggetto che fa senso per qualcuno che è obbligato a farsene soggetto. Nelle situazioni in cui lo psichico fa segno solo di sé o dell’oggetto con cui si relaziona, il dispositivo analitico ricorre a una modulazione del metodo, per es. richiedendo di intensificare l’investimento di attenzione (soprattutto quella dell’analista) e riducendo al minimo l’attività riflessiva, a favore della fantasia e della sensazione (l’attività onirica della veglia, in termini ispirati a Bion).18 Nel terzo caso infine il metodo consente di focalizzare nel processo di pensiero il segno di una relazione triadica fra il contenuto di pensiero, l’oggetto cui si riferisce e il soggetto del pensiero. Il terzo caso descrive sul piano semiotico la dimensione alla quale il metodo psicoanalitico apre sul piano clinico-terapeutico più noto, quello della relazione oggettuale triadica e del transfert e del fantasma che vi sono connessi.

5-  Il metodo in quanto componente del dispositivo psicoanalitico

La nozione di dispositivo19 si rivela di grande interesse per l’opportunità che offre di osservare tipi reticolari di funzionamento globale in diversi ambiti di studio. Per fare un esempio interno al campo psicoanalitico, la polemica antilocalizzazionista di Freud nei confronti degli afasiologi del suo tempo verteva essenzialmente sul concepire il sintomo afasico come riorganizzazione della rete deputata alla parola e non come effetto immediato e puntiforme di una lesione. Anche oggi le più moderne teorie neurofisiologiche rilevano come ogni disfunzione cerebrale sia sempre l’esito visibile del tentativo di supplire all’ipofunzione di una rete, un’area o un centro cerebrale, attraverso l’assunzione della funzione lesa da parte di altre reti, aree e centri. Forma e intensità della disfunzione dipendono dal rapporto fra lesione e supplenza funzionale. Il sistema nervoso presenta una struttura reticolare tridimensionale nello spazio e nelle funzioni di straordinaria complessità, ma l’apparato psichico concepito dalla psicoanalisi è ancora più reticolare e funzionalmente esteso poiché va dal corpo alla coscienza, dallo psichico embricato con l’organico allo psichico simbolico.20
        L’interesse maggiore della nozione di dispositivo, per il discorso sul metodo, sta però in un altro ambito. Il dispositivo, essendo eterogeneo nella composizione plurifunzionale delle attività, possiede una plasticità che sul piano fenomenico-clinico si manifesta nella capacità di riferirsi ad aree diverse della psicopatologia e della clinica pur mantenendo sia riconoscibilità di forma e di organizzazione sia efficacia operativa. La concezione del dispositivo come rete di processi, organizzazioni, spazi e tempi, regole, discorsi, inoltre permette di affrontare una controversa questione teorica e clinica: se e come la psicoanalisi sia differenziabile dalla psicoterapia, inclusa quella definita psicoanalitica. Se la differenza è posta in termini assenza/presenza di tratti definiti e distinti, presi individualmente dalla teoria, dal metodo o dalla clinica, la questione si rivela irriducibile. Ma se l’argomento viene affrontato partendo dalla nozione di dispositivo, è possibile osservare che per quanto sia vero che non ogni metodo terapeutico può essere considerato trattamento psicoanalitico, molta ‘cura’ o trattamento può essere riconoscibilmente psicoanalitica, per il fatto di manifestare una gestalt analitica aldilà della forma concreta e contingente. La gestalt poggia sul fatto che l’assenza, la riduzione, o l’enfasi di un certo elemento del dispositivo non annulla la qualità del dispositivo di essere ‘psicoanalitico’, ma solo ne condiziona l’operatività, restringendola a certi piani o vincolandola all’uso preferenziale di un certo metodo o una certa tecnica. Detto altrimenti, il dispositivo analitico è modulabile, o anche scalabile, perché si ‘adatta’ a circostanze diverse e differenti dal trattamento classico: una qualità, o scalabilità, che dipende in misura notevole dal metodo (o meglio dai metodi psicoanalitici specifici adottati volta a volta).
Ci sarebbe da chiedersi perciò, riguardo alla questione dell’estensione del metodo psicoanalitico, se essa nasca dalla necessità di rivedere, modificare, sostituire in parte o in toto la teoria oppure dalla difficoltà di concettualizzare il dispositivo analitico stesso, per il fatto che di quest’ultimo volta a volta si focalizza e si descrive una parte diversa, scambiandola per il tutto. Come sostiene Kaës, “il dispositivo varia con il tipo di lavoro psicoanalitico, a seconda del suo obiettivo e dei soggetti per i quali è costruito e con i quali funziona. Varia anche con le estensioni del campo della pratica psicoanalitica, a seconda che questa si applichi ad un soggetto singolare o a più soggetti che formano un gruppo, una coppia, una famiglia.” (Kaës 2015 p. 176). Se il focus del dibattito vertesse sul concetto di dispositivo più che sul metodo, quest’ultimo, coltivato e approfondito come procedura d’indagine, secondo la metafora freudiana potrebbe prestarsi non più a separare l’oro dal rame sul piano definitorio e astratto dei concetti, ma a funzionare operativamente come l’equivalente nel trattamento psichico della pietra di paragone usata per verificare la presenza e contenuto d’oro negli oggetti. Vale a dire il metodo servirebbe a verificare il contenuto inconscio di ogni relazione e comunicazione, l’oro della psicoanalisi, operando come rivelatore psicoanalitico dell’inconscio con una potenza di verità e convinzione non raggiunta da altri metodi scientifici o terapeutici.

Inteso come procedura per l’instaurazione e il mantenimento della cura analitica,21 il metodo psicoanalitico dunque può rivelarsi parte essenziale della Psicoanalisi perché costituisce uno dei vertici del dispositivo in cui si incarna la Psicoanalisi stessa. In base alle definizioni freudiane di psicoanalisi sopra riportate, infatti, possiamo concepire la Psicoanalisi come un triangolo ai cui vertici si pongono tre ambiti di riferimento: il procedimento per l’indagine di processi psichici, il metodo terapeutico, la serie di conoscenze psicologiche costituenti la scienza dei processi psichici.22

A procedimento per l’indagine

B scienza dei processi psichici          C metodo terapeutico 

I vertici sono connessi in maniera tale da implicarsi reciprocamente:

  1. il procedimento d’indagine A è connesso da un lato, attraverso il metodo terapeutico C, alla finalità della terapia di superare o modificare i sintomi (la patologia), e dall’altro alla scienza o teoria dei processi psichici B che descrive la formazione del sintomo e di altri fenomeni psicopatologici;
  2. la teoria come scienza B da un lato implica un procedimento d’indagine A che le fornisca modalità di osservazione e verifica sul piano empirico e dall’altro è connessa al metodo terapeutico C al quale essa prescrive l’ontologia di riferimento;
  3. il metodo terapeutico C, insieme al trattamento in cui si esprime operativamente, è connesso al procedimento d’indagine A, che gli prescrive, per il principio del rapporto mezzi/fini sopra esposto, forma, percorso e tipo d’indagine da svolgere. Sull’altro versante esso si collega alla scienza o teoria B che gli fornisce i concetti fondamentali, le leggi e gli assiomi cui deve sottostare per acquisire efficacia ed efficienza.

I tre vertici delimitano un campo di sapere, di potere e clinico, al cui interno si dispongono i concetti e le teorie, i metodi e le procedure, la clinica e la tecnica terapeutica, in una rete di relazioni che supera ampiamente i concetti correnti di setting e relazione utilizzati in psicoanalisi. Il dispositivo cioè è fatto di pensiero, azione, organizzazione temporale e spaziale, posizione di ruoli e discorsi, individualizzazioni e soggettivazioni, relazioni intra e interindividuali, la cui complessità non è mai padroneggiabile in toto, ma sempre nei limiti di un segmento della rete o del processo che sostiene la rete. La posizione del metodo all’interno del dispositivo sta proprio nel costituire un cardine fra il sapere teorico, la scienza dei processi psichici, il potere insito nel procedimento per l’indagine (cioè nella capacità di azione regolata e in definitiva nella procedura metodica), e la clinica, in cui il metodo terapeutico si realizza nella concreta realtà intra e interindividuale.

6-  Metodo e processi di soggettivazione.

Un’ipotesi che vorrei avanzare, anche a conclusione di questa introduzione al metodo psicoanalitico, è che il metodo svolga nel dispositivo analitico una funzione regolatrice di quei processi psichici, intra e interindividuali, il cui effetto visibile è lo sviluppo, l’incremento, la diversificazione della funzione soggettiva nell’individuo. In effetti, se accettiamo la concezione della soggettivazione psichica come processo di appropriazione emotiva, cognitiva ed etica da parte di ogni singolo individuo del proprio funzionamento psichico, allora si può considerare che il metodo analitico svolga la particolare funzione intrapsichica di regolare in chi lo segua (analista e analizzando) il processo di appropriazione soggettiva di pensieri, emozioni, sensazioni e funzioni psichiche.23
        La vita in comune24 dispone e mette a disposizione per ciascuno di noi la necessità della e il diritto alla consapevolezza di una definizione interiore attraverso l’identità socio-culturale e i processi di riconoscimento-riconoscenza che la sorreggono, garantendo che ciascuno sia quell’uno che sente di essere e che vede riconosciuto dagli altri. Naturalmente sappiamo che si tratta di un obiettivo asintotico e che la realtà e fatta di conflitti, contraddizioni, disagio e anche malattia. Nella vita intrapsichica, come la vede la psicoanalisi, le identificazioni inconsce, i caratteri individuali dei regimi e delle difese, infine la costituzione psichica costruiscono quell’apparato psichico singolare al quale la coscienza nella sua forma più complessa, l’autocoscienza, appone un sigillo conclusivo. Essa lo fa costituendosi come forma finale in senso aristotelico e dunque fornendo a ciascuno di noi un’impronta teleologica ineliminabile, pena gravi conseguenze psicopatologiche. Il sigillo della forma è la soggettività, che nel discorso foucaultiano si erge a terzo vertice del triangolo, i cui due altri vertici sono il potere e il sapere.
Nel triangolo psicoanalitico del potere-sapere-soggettività, il potere e il sapere sono la teoria e il metodo, che governano il trattamento dall’avvio alla terminazione. La soggettività, dal canto suo, intesa come coppia assoggettamento/soggettivazione, rappresenta ciò che, mentre si fa prendere dal processo terapeutico dell’analisi, soggiacendovi, nello stesso processo si sviluppa e si differenzia, modellandosi in una forma che contempla tanto l’identificazione con parti dell’analisi e dell’analista quanto l’invenzione e/o la scoperta della possibilità della creazione di se stessi. Il metodo analitico rivela qui un’altra faccia della sua insostituibilità per il fatto di porsi come via o mezzo per collegare la teoria con la terapia al fine di potenziare i processi di soggettivazione in chi vi si sottopone, in un processo infinito di riconoscimento e appropriazione del proprio funzionamento psichico, dal quale si riconosce di dipendere per vivere. I processi di soggettivazione conferiscono, reciprocamente, all’apparato psichico individuale il senso, o l’illusione del senso, della propria indistruttibile qualità di fine e giustificazione della propria esistenza singolare.

1 Freud S. (1923). Psicoanalisi. OSF 9. E ancora nel testo del 1925 Le resistenze alla psicoanalisi : “nella sua veste di procedimento terapeutico per le malattie nervose, di metodo della ricerca psicologica, e di strumento ausiliario per un lavoro scientifico applicabile agli ambiti più svariati della vita spirituale.” (p. 51)
2 Freud S. (1925). Psicoanalisi. OSF 10.
3 Sempre nel 1925, (Resistenze alla psicoanalisi, p.51, OSF 9) Freud descrive l’esercizio della psicoanalisi “nella sua veste di procedimento terapeutico per le malattie nervose, di metodo della ricerca psicologica, e di strumento ausiliario per un lavoro scientifico applicabile agli ambiti più svariati della vita spirituale.”
4 Kaës R. (2015). L’estensione della psicoanalisi. Per una metapsicologia del terzo tipo. Milano FrancoAngeli 2016
5 Freud S. (1914). Per la storia del movimento psicoanalitico. OSF 7.
6 Nel caso di Elisabeth von R. Freud scrive: “Così, in questa prima analisi completa di un’isteria da me intrapresa, arrivai a un procedimento che in seguito ho eretto a metodo e introdussi deliberatamente, un procedimento di svuotamento strato per strato, che ci piaceva paragonare alla tecnica del dissotterrare una città sepolta.” (1893-95 Studi sull’isteria, OSF I p.293)
7 Mi riferisco qui alle tre categorie kantiane della modalità.
8 Alfandary I. (2021). Science et fiction chez Freud. Paris, Les Éditions d’Ithaque.
9 Rapaport D. (1944-48). La metodologia scientifica della psicoanalisi. In Rapaport D. Il modello concettuale della psicoanalisi. Milano, Feltrinelli 1977.
10 Espressione coniata da Imre Herman (1963) in Psicoanalisi come metodo. Bari, Edizioni Dedalo, 1990. Egli la riporta al principio della continuità psichica, diversamente dal riferimento alla semiotica svolto in questo scritto.
11 Come sostiene Freud nell’Interpretazione dei sogni.
12 La definizione peirciana è: “Un’Icona è un segno che si riferisce all’Oggetto che essa denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che tale Oggetto esista effettivamente, sia che non esista. E’ vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto, l’Icona non agisce come segno; ma questo non ha nulla a che fare con il suo carattere di segno.” Peirce C.S. (1903). Nomenclature and Divisions of Triadic Relations. CP. 2.247; trad. it. in Peirce C.S. Opere, Milano, Bompiani, 2003, p.153.
13 Questa la definizione: “Un Indice è un segno che si riferisce all’Oggetto che esso denota in virtù del fatto che è realmente determinato da quell’Oggetto. […] Nella misura in cui l’Oggetto agisce sull’Indice, l’Indice ha necessariamente qualche qualità in comune con l’Oggetto, ed è rispetto a queste qualità che l’Indice si riferisce all’Oggetto. L’indice, perciò, implica una specie di Icona, sebbene un’icona di un tipo peculiare; e non è la pura somiglianza al suo Oggetto che lo rende segno, ma è l’effettiva modificazione subita da parte dell’Oggetto.” Peirce C.S., op. cit., CP. 2.248; trad. it. in Peirce C.S. op. cit., 2003, p.153.
14 La definizione qui afferma: “Un Simbolo è un segno che si riferisce all’Oggetto che esso denota in virtù di una legge, di solito un’associazione di idee generali, che opera in modo che il Simbolo sia interpretato come riferentesi a quell’Oggetto.” Peirce C.S. op. cit., CP. 2.249; trad. it. in Peirce C.S. op. cit., p.153.
15 Cf. Steiner R. (2008). Indice, icona, simbolo? Può la classificazione di Peirce essere utile in psicoanalisi? Psicoanalisi, v.12 n.1 p.61-110. Cf. anche: Muller J. and Brent J. (eds). Peirce, Semiotics and Psychoanalysis. Psychiatry and the Humanities, vol.15. J. Hopkins Univ. Press, Baltimore & London 2000; Smith J.H. and Kerrigan W. (eds) Pragmatism’s Freud: The moral disposition of Psychoanalysis. Psychiatry and the Humanities, vol.9. J. Hopkins Univ. Press, Baltimore & London 1986.
16 Compromissoria: intesa come caratteristica del linguaggio di negoziare uso e menzione, significato diretto e metaforico, delle parole e dei concetti all’interno dei campi relazionali individuali e collettivi. L’interpretazione spesso prende la forma di negozio compromissorio.
17 Il qualcosa che è l’oggetto del segno in psicoanalisi trova molti nomi: oggetto dell’investimento pulsionale, oggetto piccolo a in Lacan.
18 O modulando il campo delle associazioni libere dell’analizzando non più sui contenuti ma sullo stesso ‘dire’.
19 Il modello filosofico di dispositivo si deve a M. Foucault, che lo ha esposto in diverse opere. Una definizione ampia è reperibile in Foucault M. (1976-79) Dits et écrits 1954-1988, Tome 3, Paris Gallimard pp.299-300.In campo psicoanalitico una definizione piuttosto complessa ma completa è presente in Kaës R. (Un singolare plurale, Roma, Borla 2007, p.73): il dispositivo “è la composizione di elementi spazio-temporali e di materiali appropriati a un obiettivo di conoscenza e di trasformazione […] è quindi iscritto […] nell’adeguatezza relativa di un oggetto o di uno strumento rispetto a un progetto e a una data situazione. Il dispositivo è ciò di cui si dispone e ciò che la psicoanalisi dispone per mettere in pratica la psicoanalisi: l’artificio che attua rende manifesto un certo ordine della realtà psichica altrimenti non distinguibile, e sulla quale non sarebbe possibile alcuna operazione di trasformazione senza questo dispositivo.” In un’opera successiva, Kaës scrive: “Esistono diverse concezioni di un dispositivo; ne assumo la definizione più generale: “maniera in cui sono disposti, in vista di un fine preciso, i pezzi di un apparato, le parti di una macchina” e, per estensione: “insieme di elementi sistemati in vista di un fine preciso”. Il dispositivo psicoanalitico è l’insieme dei mezzi sistemati in vista del lavoro psicoanalitico. La storia di questa nozione segue le principali tappe dell’invenzione del metodo psicoanalitico. Nel suo articolo del 1913 sull’Inizio del trattamento, Freud descrive gli elementi invarianti della situazione psicoanalitica, le caratteristiche formali del dispositivo: l’organizzazione del tempo (durata e ritmo delle sedute), dello spazio, il rapporto con il denaro, infine la struttura delle regole fondamentali. Vi include la funzione dell’analista. Il dispositivo corrisponde a ciò che gli autori anglosassoni chiamano setting. Per Winnicott, il setting designa l’insieme di tutti i dettagli della sistemazione del dispositivo psicoanalitico di cura e che contribuiscono alla sua stabilità. Notiamo che questa concezione del setting introduce la nozione di stabilità del processo di cura e prefigura il concetto moderno di setting (cadre), cosa che Bleger riconoscerà nel suo articolo del 1967. Ognuna delle grandi modificazioni del dispositivo tecnico corrisponde ad un dibattito teorico sull’estensione del campo pratico della psicoanalisi, agli aggiustamenti resi necessari dalle con figurazioni dello spazio psichico messo al lavoro: quello dei bambini, delle persone non nevrotiche.” Kaës R. (2015). op.cit., p.175
Il modello filosofico di dispositivo si deve a M. Foucault, che lo ha esposto in diverse opere.
20 Come scrive Freud nel 1938 nel Compendio di psicoanalisi e in Risultati, idee, problemi. OSF 11.
21 O in altri termini del trattamento come sistema autopoietico.
22 In un recente articolo sul metodo Semi aggiunge alla terna teoria, metodo, esperienza un quarto vertice, la tecnica, passando dal triangolo al tetraedro. Cf. Semi A.A. (2021). Il metodo psicoanalitico e la complessità del suo costante rapporto con la teoria, la tecnica e l’“esperienza psichica”. Reperibile all’indirizzo web: https://www.spiweb.it/la-cura/sul-metodo-psicoanalitico-antonio-alberto-semi/
23 Sul tema cf. Garella (2012) La questione della terza topica e la posizione del soggetto in psicoanalisi. Rivista di Psicoanalisi 58:843-863; Garella (2014). Per una metapsicologia del soggetto. In Funari F. e Mangini E. La metamorfosi della pulsione. Milano FrancoAngeli 110-116; Garella (2014) L’illusione del Soggetto. Atti del XVII° Congresso della S.P.I., Milano 22-25 maggio 2014 26-29.
24 Parafrasando Todorov T. (1995). La vita comune. L`uomo è un essere sociale. Milano, Pratiche 1998.