Oltre il narcisismo e le solitudini.
di Sarantis Thanopulos
Il Manifesto, 28/5/2022
Si svolge in questi giorni a Napoli il XX Congresso Nazionale della Società Psicoanalitica Italiana. Il suo tema è “Oltre il narcisismo e le solitudini. Quale sogno per il futuro?” Il congresso guarda tristemente alla nostra realtà, ma mira a riportare lo sguardo alla vita vera. Il destino della psicoanalisi è legato all’esperienza che sogna, perché veramente vissuta.
Del narcisismo si ha un’idea approssimativa. Diventato uno dei luoghi comuni della narrazione della vita, fa parte della pigra, distratta censura morale con cui il nostro criticismo quotidiano nei confronti delle persone con cui ci relazioniamo ci esonera dalla necessità di farsi carico della nostra insoddisfazione. Si vede il narcisismo come eccesso di amor proprio che rende l’individuo egocentrico, avaro di sentimenti, incapace di empatia. In realtà il narcisismo nella sua forma più patologica (bisogna sempre ricordarsi che nelle giuste proporzioni è una componente necessaria dell’eros) elimina insieme all’amore per l’altro anche l’amore per se stessi. L’eccesso di autoreferenzialità è autodistruttivo.
Inoltre, il narcisismo non è solo una condizione del soggetto singolo, ma anche una malattia molto insidiosa dell’anima collettiva che si insinua in tutte le nostre relazioni e, silenziosamente, le superficializza. È nemico di ogni forma di nostro coinvolgimento erotico, affettivo e mentale profondo (di cui l’altro è per definizione co-costitutivo) e rigetta di conseguenza l’attesa, l’imprevisto e la sorpresa. Dissolve le differenze e le particolarità, cancella le sfumature e i contrasti. Il soggetto narcisistico (individuale e collettivo) ha smarrito la propria immagine (la capacità di riconoscersi in modo privato, intimo nel proprio desiderare, sentire, pensare e agire). La cerca disperatamente senza trovarla (il lato più inquietante del mito) e specchiandosi ossessivamente nel nulla, si rende conto improvvisamente, nel momento in cui precipita, di avere guardato per tutto il tempo la morte.
Com’è la morte (soprattutto quella più temibile: l’inerzia psichica, la morte dei sentimenti) nessuno sa. Pavese scrisse che ha gli occhi dell’amore (di sé e dell’altro) smarrito. Si dice che ha la voce delle sirene. Nel dipinto del suo “Trionfo” a Palermo cavalca un cavallo scheletrico, simbolo del deperimento della carne del desiderio sotto l’ubriacatura della vita opulenta. La società narcisistica è anoressica: dietro il consumo continuo di tutto e di nulla si celebra la fede nella superiorità morale della vita esangue e nella forza incorruttibile delle ossa scarnificate.
Qualche giorno fa, nel Texas, un ragazzo di 18 anni ha ucciso 19 bambini di una scuola elementare e due insegnanti. L’ultimo di una serie infinita di omicidi di massa negli Stati Uniti. Il governatore texano in carica, amico di Trump, aveva introdotto qualche anno fa una legge che permette di portare armi per strada senza licenza. Il presidente Biden ha invocato una battaglia contro la lobby delle armi. La verità è che questa lobby ha radici solide nella cultura della morte che, prosperando nella desertificazione delle relazioni e dei sentimenti, si espande a macchia d’olio come ossessione di sicurezza: vivere per non morire, non soffrire, non trasformarsi. Vivere immobili, come morti.
Ciò che più colpisce nell’immane catastrofe dei bambini morti sul fiorire della loro esistenza (nel Texas come in Ucraina) è la nostra assuefazione. Ci siamo rassegnati. La rassegnazione che non viene dalla disperazione, ma è assuefazione, è l’indicatore più sicuro del trionfo del narcisismo.
Possiamo resistere alla desertificazione? Per combatterla dobbiamo irrigare e arare la terra che abitiamo. Sostare nelle aree conviviali in cui gli sguardi si incontrano, i gesti e ritmi si accordano, le sensazioni psicocorporee si coinvolgono, i pensieri e i sogni si toccano, fa vincere la vita sulla morte.