Centro Napoletano di Psicoanalisi

L’importanza della supervisione nel DSM. Il ruolo dello psicologo psicoanalista.
Maria Luisa Califano

L’istituzione sanitaria deputata all’erogazione dell’assistenza psichiatrica, con le sue
strutture e sottostrutture, ha gestito negli ultimi decenni la presa in carico dei pazienti
psicotici gravi. Gli interventi sanitari ad essi diretti hanno richiesto lo sviluppo di
pratiche terapeutiche che hanno coinvolto un largo gruppo di curanti. Tale pratica è
stata sollecitata dai complessi bisogni sanitari di questo tipo di utenti, da cui è
scaturita la necessità di contenere ed elaborare le angosce degli stessi curanti
coinvolti nella relazione terapeutica. A riprova delle pressioni esercitate da tali
vissuti, cito l’abitudine di molti psicoterapeuti che lavorano in setting istituzionali
individuali e gruppali di chiedere autonomamente supervisioni private per il loro
lavoro. Un’ altra pratica molto diffusa nella maggior parte dei servizi psichiatrici è la
consuetudine di dedicare molto tempo a riunioni di gruppo, pratica che tende ad
elaborare le dinamiche che si sviluppano nell’ attività di assistenza psichiatrica. In
queste riunioni sono, di volta in volta, convocati: mini equipe che lavorano su singoli
casi, o specifiche categorie di professionisti, oppure l’intero gruppo di curanti.
La storia dell’attività terapeutica dei servizi di salute mentale, d’altronde, fa riflettere
sulla impossibilità di affrontare le problematiche inerenti la maggior parte dei
pazienti trattati, parcellizzando gli interventi ed iperinvestendo, di volta in volta, solo
su singoli trattamenti: farmacologici o psicoterapici o riabilitativi. La consapevolezza
dell’ impossibilità di affrontare attraverso un solo tipo di attività i problemi della
maggior parte dei pazienti afferenti ai servizi pone invece ogni operatore di fronte
alla necessità di prendere atto dei limiti delle attuali conoscenze: nel campo
farmacologico, nell’ambito delle teorie a cui si ispirano gli interventi psicoterapici, e
di quelle a cui si ispirano le attività riabilitative. La valenza terapeutica dell’insieme
del lavoro dei DSM può essere messa a dura prova da modalità di presa in carico che
eludano la complessità del compito assistenziale. Gli operatori rischiano così di
sperimentare passaggi repentini da momenti di investimento onnipotente a momenti
di delusione e fallimento. Queste modalità possono portare all’abbandono terapeutico
del paziente con tentativi di affido ad altro curante, se non addirittura a facilitare
l’allontanamento del paziente stesso dal servizio. Intorno a questo funzionamento
dell’istituzione ( con relazioni terapeutiche individuali, gruppi terapeutici, gruppi
clinici, gruppi che lavorano sull’organizzazione del servizio) si producono
complessi intrecci individuali e gruppali in grado di generare situazioni di impasse

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che ostacolano un proficuo svolgimento della cura. L’attività dei servizi è spinta a
chiudersi in ripetitivi e sterili interventi, mentre i percorsi di assistenza perdono una
vera e propria valenza terapeutica. I blocchi sono prioritariamente prodotti dalla
confusione dei sentimenti di onnipotenza e impotenza, da intense proiezioni, da
impossibilità di elaborare emozioni legate alle valenze dei transfert e dei
controtransfert che, nel loro insieme caratterizzano il rapporto tra il gruppo degli
utenti e quello dei curanti, o anche si sviluppano all’interno del gruppo stesso dei
curanti. Questo coacervo di emozioni può seriamente intralciare il lavoro delle
diverse equipe coinvolte nei progetti terapeutici, la cui operatività è strettamente
correlata, dovendosi dispiegare quasi sempre, come dicevo, attraverso una pluralità di
interventi. Risolvere i momenti di impasse è indispensabile per recuperare
un’operatività adeguata al raggiungimento degli obiettivi del servizio. Penso che
proprio in questi gruppi di curanti sia molto importante il contributo degli
psicoterapeuti formati a cogliere le dinamiche intraindividuali e gruppali. La
formazione psicoanalitica è in questi casi una risorsa che sostiene la costruzione di
spazi di pensabilità, anche con attività di intervisione che riesaminino il lavoro clinico
svolto.
Dal canto suo, l’istituzione può configurarsi come un “Giano bifronte”che da un lato
offre un alleviamento delle angoscia e soluzione dei conflitti e, dall’altra, “realizza
delle concretizzazioni inesorabili dei conflitti” (E. Gaburri). Il loro superamento,
invece, richiede il decentramento nel vertice di un’altra mente per poterli ripensare e
risolverli: l’intervento di un supervisore.
La supervisione si trova ad affrontare come prima manifestazione di collusione
patologica nel gruppo dei curanti proprio il blocco del pensiero e il rifiuto di entrare
in contatto con emozioni ambivalenti e complesse. Lo sguardo terzo della
supervisione ha bisogno di tempo e pazienza per aiutare gli operatori a sperimentare
un percorso di pensiero che aiuti nella costruzione di un progetto terapeutico
sostenuto da una riflessione teorico clinica.
Oggetto della supervisione può essere, di volta in volta, la relazione terapeuta-
paziente; l’intero gruppo curante, l’istituzione con le relazioni tra le strutture e
sottostrutture che la compongono e come esse si interfacciano tra di loro.

Il contributo di un terapeuta di formazione psicoanalitica
Verrò ora allo specifico del contributo che uno psicoterapeuta con formazione
psicoanalitica può garantire nel contesto istituzionale. Cercherò di illustrarvi come ho

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organizzato e gestito il mio lavoro, tra psicodiagnostica, psicoterapia, supervisione
del lavoro dei colleghi più giovani e contributo alla gestione delle dinamiche
istituzionali.
Ho voluto, anche nel contesto istituzionale come nel setting privato, tenere distinta la
diagnostica testistica dall’attività di psicoterapia psicoanalitica. L’area della
psicodiagnostica è stata affidata ad un’altra collega che si è occupata della
valutazione e della diagnostica psicologica, personologica e psicopatologica. Nello
spazio di psicoterapia da me gestito e dove hanno lavorato, per un tempo
sufficientemente lungo, tre candidati SPI, ho garantito, invece, attraverso i colloqui
preliminari, una valutazione psicoanalitica per i percorsi di cura non solo di
psicoterapia psicoanalitica, ma anche per quei percorsi, che un servizio può offrire e
che possono essere alternativi o collaterali a quelli psicoterapici.
Creare uno spazio dove l’inconscio del paziente potrà cominciare a parlare al nostro
inconscio è cosa ben diversa dalla nosologia. Prima di parlare il linguaggio dell’Io,
dobbiamo lasciar spazio al linguaggio dell’Es e dei suoi derivati. Il setting
psicoanalitico crea le premesse perché l’imprevedibilità dell’inconscio possa rivelarsi
ed è questo l’ obbiettivo primario della relazione analitica. Il raggiungimento di tale
obbiettivo è garantito dalla regola psicoanalitica che struttura il setting. Essa è
l’organizzatore primario del metodo di indagine psicoanalitico e si articola secondo il
principio delle libere associazioni a cui fa da converso l’attenzione fluttuante del
terapeuta.
Sarà in un momento altro e successivo che il terapeuta rifletterà sulle
rappresentazioni che si saranno prodotte nel corso della seduta e potrà pervenire ad
un’ipotesi diagnostica.
Personalmente ritengo molto utile tener presente nelle valutazioni diagnostiche gli
assi organizzatori della patologia, cosi come li presenta A. Green(2002), richiamando
la teoria freudiana nella formulazione della seconda topica: sessualità, IO, Super-io,
disorganizzazioni prodotte dalla distruttività orientata verso l’esterno, distruttività
interna nelle forme maggiori del narcisismo negativo e del masochismo primario.
Sono questi gli elementi che mi hanno accompagnato a lungo, anche nel contesto del
servizio pubblico, nel difficile compito di dover decidere circa l’opportunità di
prescrivere un percorso terapeutico. In questo senso il diagnosticare stesso è un
processo che si snoda attraverso costruzioni provvisorie, e tollerare a lungo quella
provvisorietà significa anche tutelare l’individualità di quel percorso analitico. Non
dimentichiamo, ad esempio, che anche avendo come riferimento una nosografia di
tipo freudiano a noi non basta sapere se una struttura è nevrotica o psicotica, poiché
nel corso del trattamento potremmo imbatterci in una struttura psicotica che si
comporti come una struttura nevrotica o, viceversa, una struttura nevrotica che si

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comporti come una struttura psicotica. L’istituzione, se è in grado di rinunciare
all’interventismo ad oltranza, funge da valido contenitore per le angosce che
pervadono il setting terapeutico, soprattutto nei momenti in cui compare una
sintomatologia legata al grave rischio di una rottura psicotica che può paralizzare
ogni capacità di pensare. Ai pazienti che presentano, fra una seduta e l’altra, una
straripante angoscia di annientamento, i servizi, operativi 24 ore su 24, possono
offrire insieme presenza rassicurante, garantita dalle attività di base, ed alternanza
indispensabile per l’ampliamento della capacità di rappresentazione, offerta dal
setting psicoterapico. L’altalena tra illusione e delusione, presenza onnipotente ed
assenza mitigata, favorisce in questi pazienti i processi di integrazione delle
scissioni, senza temere la totale distruzione di se stessi..
Sottolineo che in alcuni casi, se giungevo ad ipotizzare, nel corso della valutazione,
un rischio di regressione massiva scarsamente gestibile nel contesto analitico, nonché
un passaggio all’atto o comunque una situazione pericolosa nell’ambito del contesto
transferale, l’intervento psicoterapico non era l’unico proponibile. Con molti di questi
pazienti personalmente rinunciavo all’intervento psicoterapico anche nell’ambito
istituzionale e, ritenendo mio dovere comunque accompagnare un percorso di cura,
lavoravo per un percorso alternativo. Ho per questo motivo molto lavorato, sia per
l’inserimento di alcuni pazienti nel Centro diurno, sia con il responsabile del Centro
diurno con il quale abbiamo pensato la programmazione di alcune attività riabilitative
aperte al territorio.
Nel caso in cui giungevo alla decisione di consigliare al paziente un percorso di
psicoterapia psicoanalitica era sempre garantito un ascolto psicoanalitico, che
cominciasse a lavorare sull’assetto difensivo del paziente, anche se il lavoro
interpretativo forse non sarebbe mai giunto, nella maggior parte dei casi, sino ad
operare delle vere e proprie trasformazioni strutturali. Questo atteggiamento
consente, a mio avviso, di operare nel lavoro psicoterapico anche per preparare un
possibile successivo lavoro analitico.
Affronto per ultima una delle decisioni più spinose che mi sono posta: quale sarebbe
stato il terapeuta che avrebbe dovuto prendere il paziente in trattamento? Ho sempre
ritenuto che fosse importante non escludere che avrebbe potuto essere un terapeuta
diverso. Personalmente mi attengo, e mi sono sempre attenuta, al principio che non si
tratta solo di decidere se un paziente è analizzabile, quanto piuttosto se esso è
analizzabile da me. Impariamo con l’esperienza clinica, sostenuta dalla nostra analisi
personale, dal lavoro sotto supervisione e dal confronto con i colleghi a identificare i
nostri resti non elaborati e talvolta a sospettare la presenza di quelli non elaborabili,
che possono interferire con le nostre scelte terapeutiche. Si può portare avanti un

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corretto lavoro psicoterapico o un corretto lavoro psicoanalitico, a seconda dei
pazienti che trattiamo, ma ritengo che comunque si debba cercare di non perdere
l’occasione di analizzare il paziente, né tanto meno di fargli perdere l’occasione di
essere analizzato.
Il confronto con gli altri operatori della salute mentale
Tornando al processo diagnostico sottolineo che si ha, in un secondo momento
rispetto a quello dei colloqui preliminari, la possibilità di riflettere sui dati raccolti e
operare una sintesi strutturata comunicabile ad altri professionisti del settore. Molti
sono i problemi che si incontrano già nel delimitare il campo di una definizione con
valenze diagnostiche. Su questo terreno si riscontrano maggiormente le difficoltà di
far interagire profili diagnostici stilati in base a principi diversi, come quelli sottesi
ad una diagnosi strutturale o a quella categoriale o a quella dimensionale, ed è diverso
il senso che alla formulazione di una diagnosi danno discipline differenti, anche se
attigue, come la psichiatria e la psicoanalisi. Conservare la peculiarità del nostro
vertice di lettura ci dà l’opportunità di dare un contributo estremamente produttivo al
confronto clinico. Molti di noi, psicoterapeuti con formazione psicoanalitica, hanno
imparato a lavorare muovendosi sui differenti livelli, cercando di acquisire
informazioni sui diversi linguaggi usati per poter favorire la comunicazione con i
colleghi psichiatri e riabilitatori, avendo ben chiaro che la valutazione diagnostica
stessa prende caratteristiche e importanza diversa nei differenti contesti terapeutici. I
momenti di confronto necessari, data la comune responsabilità clinica, spingono ad
interrogarsi su come e perché un altro professionista ha assunto una decisione in
merito alla prescrizione farmacologia o alla strutturazione di un progetto riabilitativo.
Poter confrontare i principi che ispirano i diversi interventi facilita la riflessione sulle
dinamiche relazionali che entrano nella costruzione dei percorsi terapeutici.
Nello spazio di psicoterapia abbiamo garantito, ripeto, attraverso i colloqui
preliminari, una valutazione psicoanalitica per i percorsi di cura non solo di
psicoterapia psicoanalitica, ma anche per quei percorsi che il servizio può offrire e
che possono essere alternativi o collaterali a quelli psicoterapici. Accedevano in
psicoterapia i pazienti che sviluppavano un transfert gestibile nella relazione
terapeutica. Consigliavo l’intervento psicoterapico anche se, nel corso della
valutazione, era ipotizzato un rischio di regressione scarsamente gestibile nel setting
psicoterapico, purché lo fosse nell’ambito del contesto più allargato del setting del
servizio. Sconsigliavo, invece l’intervento psicoterapico quando, nel corso della
valutazione, era ipotizzata una regressione massiva, nonché un passaggio all’atto o
comunque una situazione pericolosa nell’ambito del contesto transferale che poteva

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essere agita sia direttamente nel setting psicoterapico, sia spostata in altri setting del
servizio. In molti casi predisponevamo un lavoro di sostegno.
Il lavoro psicoanalitico che abbiamo fatto, ovviamente, non può essere eguagliato ad
un lavoro di analisi, tuttavia ci ha permesso, nella maggior parte dei casi, di
accompagnare le terapie farmacologiche con un lavoro interpretativo che, nei casi più
gravi, operava un maggiore contenimento delle angosce psicotiche. Abbiamo
lavorato, invece, con alcuni pazienti, talvolta non trattati farmacologicamente, per
l’avvio di un processo di trasformazione strutturale. Questo intervento
psicoterapeutico, a mio avviso, non solo non ostacola un ulteriore lavoro analitico,
ma anzi ne potrebbe costituire, in alcuni casi, una valida premessa. Sapevamo che
tutti i nostri pazienti probabilmente non avrebbero potuto intraprendere un’analisi
personale e forse tutto ciò che riuscivamo a fare verso questo obbiettivo era non
ostacolare un eventuale ulteriore percorso.
Le richieste di trattamenti psicoterapici hanno fatto registrare un continuo aumento,
non solo nella nostra unità operativa bensì in tutto il DSM, in deciso contrasto con la
tendenza generale della politica sanitaria che è orientata a quasi azzerare le attività di
psicoterapia. Questa politica ha causato una contrazione delle risorse economiche a
nostra disposizione con conseguente diminuzione del personale, poiché a fronte dei
pensionamenti non abbiamo avuto nuove assunzioni. Abbiamo così dovuto per anni
ottimizzare l’utilizzo degli spazi di psicoterapia. Nella nostra unità operativa,
abbiamo scelto di facilitare l’accesso agli utenti più giovani e a maggior rischio di
crollo psicotico. Tendevamo, in questo modo ad intensificare la lotta alla
cronicizzazione. La convenzione stipulata tra la SPI e il DSM ci ha consentito di
accogliere come tirocinanti, nello spazio di psicoterapia, i candidati di questa società
scientifica, offrendoci un’importantissima risorsa. Solo negli ultimi anni del mio
lavoro abbiamo potuto avere al servizio quattro psicoterapeuti reclutati dalle liste
della Medicina Specialistica. Si sono succeduti due gruppi di quattro terapeuti di
formazione diversa da quella psicoanalitica. Grazie a questo apporto professionale
abbiamo talvolta lavorato con setting paralleli in casi particolarmente complessi di
patologie che interessano giovani adulti o coppie. I colleghi giunti nell’ultimo
periodo non avevano una formazione psicoanalitica e tra di loro avevano approcci
clinici differenti, comunque è stato molto interessante far lavorare tra di loro queste
diversità. Ho fin dall’inizio organizzato gruppi di intervisione sui casi trattati, una
modalità operativa che ci ha permesso di lavorare con maggiore serenità. Quando
sono andata via, ho ricevuto dai colleghi molte attestazioni di stima e gratitudine.
La collaborazione con il Centro Diurno

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Il lavoro, che ho svolto nel servizio, è stato prevalentemente psicoterapico, tuttavia
ho cercato in quegli anni di mantenere una mia presenza professionale in quasi tutte
le attività del servizio, per accompagnare i trattamenti dei pazienti che non erano da
me direttamente seguiti. Sono convinta che la presenza di uno psicoterapeuta nel
gruppo di lavoro a cui è affidato il progetto terapeutico contribuisca a mantenere viva
l’attenzione sugli spazi di pensabilità intorno alla presa in carico di questi pazienti,
ai quali altrimenti si rischia di dedicare solo interventi e spazi assistenziali. Si perde,
come dice Conreale, nei casi in cui il servizio non abbia al suo interno la possibilità di
un’interazione con uno spazio psicoterapico, “l’attitudine alla registrazione ed
elaborazione dei fenomeni fini legati all’attività rappresentativa, allo scarto cioè tra
esperienza vissuta e sua elaborazione verbale” (Correale). Volendo invece operare
per conservare questa possibilità, abbiamo in quegli anni programmato di correlare il
lavoro psicoterapeutico con quello riabilitativo. Questa modalità operativa ci ha
facilitato il confronto tra gli operatori e l’articolazione del progetto terapeutico in
funzione della reale possibilità del paziente all’entrata nel servizio. Sono stati
programmati, insieme al responsabile della riabilitazione Dott,ssa Elvia Fasulo,
percorsi differenziati a seconda delle differenti problematiche presentati dai pazienti.
Era possibile infatti che, per alcuni di essi particolarmente deprivati, si decidesse di
offrire prima un inserimento nelle attività riabilitative, favorendo una costruzione di
una fiducia di base con figure esterne al gruppo familiare, per effettuare in seguito
una valutazione preliminare all’avvio di un’esperienza psicoterapica. Abbiamo
lavorato in tal senso con pazienti che avevano vissuto in stato di quasi totale
isolamento nell’ambito del nucleo familiare, per i quali la frequenza del servizio di
riabilitazione è stata la prima possibilità di rapportarsi con un ambiente esterno
contenitivo. Sottolineo che il nostro servizio di riabilitazione ha consapevolmente
rinunciato ad una logica del “fare ad oltranza”, assumendo come obbiettivo
l’accoglienza rispettosa dei reali ritmi dei pazienti. Era per questo motivo bandita la
rigida programmazione verticale delle attività, mentre, di volta in volta, si
strutturavano esperienze accogliendo la proposta che proveniva dal gruppo degli
operatori o dei pazienti. Non rivestiva particolare importanza chi fosse il proponente,
purché la proposta fosse poi condivisa dal gruppo.
L’esperienza degli ultimi anni ci ha fatto abbandonare ogni modello operativo che
volesse accompagnare i pazienti solo verso l’acquisizione o riacquisizione di mere
abilità di autogestione o di inserimento sociale. Abbiamo sempre affiancato alle
attività una riflessione nel gruppo dei curanti sulle comunicazioni che si
sviluppavano nell’ambito dei vari incontri di riabilitazione.

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BIBLIOGRAFIA

Califano ML, (2013) La valutazione nei trattamenti psicoanalitici
differenti setting a confronto,in Il Senso e la Misura a cura di Carmela Guerriera,
FrancoAngeli, Milano
Conreale A., (1991) Il Campo Istituzionale, Borla ed. Roma
Conreale A., (2007) Area Traumatica e Campo Istituzionale Borla ed. Roma,
Vigorelli Marta a cura di, ( 2005) Il Lavoro della Cura Nelle Istituzioni,
FrancoAngeli, Milano