Centro Napoletano di Psicoanalisi

Insegnamento e pratica della psicoanalisi nell’istituzione

Silvana Lombardi

 

 Il termine solitudine, scelto per fermare in un’immagine trasversale del nostro lavoro una realtà tanto emotiva quanto fattuale, è, a mio avviso, molto indicativo della complessità dell’indagine cui oggi ci accingiamo. E’ giustamente declinato al plurale poiché riguarda tanto gli operatori della salute mentale quanto i Pz. ed i loro familiari. Tuttavia, io auspico che non corrisponda ad una realtà abbandonica ma ad una disconnessione, ad un’insufficiente comunicazione che bisogna cercare di recuperare.

Non possiamo operare senza un ingaggio delle forze sociali che ne hanno il mandato, ma credo che a noi sia data la possibilità di individuare le contiguità fra le due discipline della teoria e della cura meglio definitesi come tali: la psicoanalisi e la psichiatria. 

Tengo subito a precisare che in questo contesto di riflessione penso la teoria psicoanalitica in veste di metodo di cura: una forma di psicoterapia, resa possibile da una specifica concezione dell’apparato e dello sviluppo psichico a partire dall’ inconscio, in linea con la considerazione che ne aveva Freud.

Il mio contributo, molto lontano dall’esaurire l’argomento, si limita a selezionare due strumenti, forse perfino uno solo, che non sono certo peculiari della psicologia psicoanalitica: la trasmissione del sapere e la sua messa in pratica.

Sullo sfondo si pone  il ricco  crogiuolo  della clinica.

La sfida da raccogliere riguarda il contesto d’azione.

Se e come può essere insegnata la psicoanalisi anche fuori dall’Istituzione psicoanalitica? se e come può essere applicata “fuori della stanza d’analisi”? Esse sono garanti irrinunciabili di una teoria e di un metodo. Possono essere considerati, piuttosto, dei metagaranti?

Possiamo incominciare dalla storia personale di Freud, dal modo in cui si pose il problema, dalle soluzioni che intravvide e dalla preziosa incompiutezza del suo pensiero, che ci ha affidato per farne oggetto di evoluzione e di adattamento ai tempi. 

In un lavoro del 1913, L’interesse per la psicoanalisi, egli apparve entusiasta di una divulgazione scientifica della psicoanalisi in campi quali la filosofia, la biologia, la pedagogia. La storia e l’arte potevano servirsene come chiave di lettura. I medici, ovvero gli psichiatri, troppo orientati, per eredità kraepeliniana, alla diagnosi nosografica, avrebbero potuto servirsi dell’esplorazione dell’inconscio, per l’approfondimento dell’etiopatogenesi.

Nel breve scritto del 1918 “Bisogna insegnare la psicoanalisi nell’Università?”  si pose con decisione e franchezza.

Qui egli spiegava che l’apprendimento della psicoanalisi, tanto per la teoria che per l’esperienza pratica, poteva tranquillamente avvenire fuori dalle aule universitarie: a suo avviso, la frequentazione dei convegni scientifici, la florida letteratura sull’argomento, i contatti personali con i migliori esponenti della nuova disciplina, tenevano il luogo della classica lezione accademica.

Per di più, la conduzione di casi clinici sotto la guida di un supervisore e, soprattutto ,l’analisi personale effettuavano la formazione dell’allievo tramite una modalità completa ed originale.

Con un certo rammarico, affermò che questo dispositivo formativo era stato messo a punto proprio a causa della sua esclusione dall’Università.

Il rammarico era evidentemente dovuto alla nostalgia dell’esperienza patita presso l’Università di Vienna, ove aveva iniziato la propria avventura intellettuale di studente e poi di brillante giovane medico, meritevole di una borsa di studio a Parigi, ma che era stato escluso dalla carriera accademica, inizialmente per motivi razziali, poi, tout court, per la novità sovversiva del suo pensiero.

 Fra il 1885, anno in cui aveva conseguito la libera docenza, ed il 1902, anno in cui ottenne il ruolo di professore extraordinarius, dovette prendere atto di questa impossibilità ed elaborarla (v. il sogno dell’amico R.)

Si può dire che anche il suo fu un caso di fuga di cervelli. 

 Non aveva , invece, motivo di dolersi della rapidissima diffusione della psicoanalisi. “La Società Psicologica del mercoledì” di casa Freud aveva dato origine, in pochi anni, alle numerose società psicoanalitiche ed Istituti di training . 

Il quadro che si era delineato poteva prevedere, dunque, il percorso formativo dell’analista sicuramente affidato agli Istituti di training, capaci di autosostenersi, e l’opzione, da parte delle Università (è significativo lo slittamento al plurale) di accogliere la psicoanalisi fra le materie di studio, come alcune in America. Una commistione era, a suo avviso, all’epoca, possibile.

La Facoltà di Medicina avrebbe potuto realizzare l’insegnamento della metapsicologia e fornire agli studenti la possibilità della pratica. Freud auspicò che per la ricerca i docenti di psicoanalisi avessero accesso ad un reparto di pazienti esterni per poter disporre del materiale necessario di pz. nevrotici. Per la psichiatria psicoanalitica essi avrebbero dovuto avere la possibilità di accedere anche ad un reparto di pazienti interni affetti da malattie mentali.

In America il progetto freudiano trovò una sua realizzazione. A questa concorse moltissimo la massiccia immigrazione di psicoanalisti europei che fuggivano dall’antisemitismo. Per un insieme di fattori, che includevano la necessità di integrazione ed il sostentamento, entrarono a far parte delle istituzioni pubbliche, come curanti oppure istruendo medici ed insegnanti o dirigendo ospedali. La ricerca teorica si spostò su nuove acquisizioni: il confine tra normalità e patologia, il rapporto dell’Io con la coscienza ed il contesto ambientale, il concetto stesso di Io come struttura autonoma e composta di substrutture, l’utilizzo del materiale preconscio accanto a quello inconscio.

Ora, se Freud avesse realizzato il suo sogno giovanile di conseguire una cattedra universitaria, l’insegnamento e la trasmissione della psicoanalisi in Europa avrebbe avuto un destino diverso? Forse sì.

Ben presto l’istituzione psicoanalitica ha acquistato una fisionomia gerarchica e corporativistica. L’Università ha preservato la propria, presente nella sua struttura originaria.

Essa nacque nel Medio Evo nelle chiese e nei conventi, ove iniziarono a tenersi lezioni, consistenti in letture e commenti di testi filosofici e giuridici. Qui o, in genere, intorno a grandi personalità ecclesiastiche, varie categorie di docenti e studenti cominciarono ad organizzarsi in corporazioni o universitates. Fra il 1155 ed il 1158 Federico Barbarossa promulgò la constitutio “ Authentica habita”, che conferiva privilegi ed immunità al nascente ceto magistrale e studentesco. La circostanza storico-sociale, che attivò l’iniziativa imperiale, fu quella del nomadismo studentesco, necessario per l’esiguo numero di istituzioni universitarie all’epoca. Gli studenti ottennero il riconoscimento della peregrinatio academica da cui discendevano benefici quali: la tutela dal diritto di rappresaglia ( che consentiva a chiunque avesse subito un torto da uno straniero di rifarsi su un conterraneo di questi); alcuni privilegi simili a quelli del ceto clericale, a condizione d’indossarne l’abito (clerici vagantes); la possibilità di essere giudicati dai tribunali accademici.

Io credo che non poco abbia ipotecato le possibilità di dialogo il fatto che questo  si sia posto fra due istituzioni e non fra due saperi, in sé ampi e complessi.  Per cui, soprattutto nella mente dei giovani che si accingono a questo percorso di studio e formazione, è come se sopravvivesse un oscuro scarto nell’intendere la materia: esiste naturalmente una psichiatria psicoanalitica? o si può solo applicare la psicoanalisi alla psichiatria? 

Zone d’ombra non compaiono, invece, nelle Facoltà di Psicologia, divenute infatti un capiente serbatoio di semi che oggi producono una ricca messe.

La diversa distribuzione, quasi una divaricazione, del sapere sullo psichico fra le due istituzioni,  ha subito esacerbazioni e remissioni. Il decennio che intercorre fra i trascorsi anni ’80 e ’90 ne è  positivo, macroscopico esempio (F. Barale 2014). Di questo scambio, di cui furono attori i numerosi psicoanalisti presenti tra il personale delle Psichiatrie, oggi non rimane molto: concise sintesi della  metapsicologia freudiana occupano un posto  nei manuali di Psichiatria (bisogna fare di più!) ; alcune importanti sindromi psicopatologiche, quali l’Anoressia mentale e la depressione sono state rese molto più comprensibili e trattabili grazie ad una loro interpretazione attraverso la lettura della sessualità e del lutto patologico come aspetto inconscio nella relazione d’oggetto. 

D’altra parte lo stesso Freud, nel momento in cui auspicava un’esportazione della psicoanalisi nella facoltà di Medicina, aveva avvertito che non tutte le psicopatologie erano curabili con il suo metodo e che il successo della cura dipendeva molto dal rispetto di alcuni presidi tecnici e deontologici.

 Il  pessimismo prognostico riguardava le malattie psicotiche. Queste continuano ad essere misteriose e poco risolvibili, ma, a differenza di Freud, gli psicoanalisti sono divenuti esperti di disturbi infantili ed adolescenziali, di dinamiche familiari patogene e prestano grande attenzione (come gli psichiatri, gli psicologi ed i neuropsichiatri infantili) agli esordi della malattia. Si sta osservando, ancora, una forte richiesta di terapia psicoanalitica da parte di soggetti affetti da patologie  “cosiddette gravi” ( non solo psicotici ma anche BL e disturbi di personalità) che di solito riescono a sostenere il trattamento classico, se accompagnati farmacologicamente dallo psichiatra. E, nelle fasi di grave regressione, devono poter contare su di uno spazio asilare (Bion, Rosenfeld, Searles, Green).

Queste esigenze della clinica hanno configurato un terzo interlocutore istituzionale, rappresentato dai servizi di Salute mentale. Esso mi appare come l’interprete di una richiesta d’informazione e formazione psicologica non più calata “dall’alto” ma proveniente “dal basso”. Questo aspetto, finora trascurato, conferma indirettamente la ragion d’essere della psicoanalisi che riconosce all’animo umano l’esigenza di esprimersi al di là della coscienza. Un’esigenza che oltrepassa perfino la richiesta di cura e di miglioramento della qualità di vita, a cui anche altre forme di psicoterapia s’impegnano.  Da questa richiesta credo possa aver tratto impulso l’importante filone della ricerca sulla psicoanalisi dell’Istituzione, che non può essere intesa come un insieme d’ingranaggi, una macchina più o meno efficiente, ma una fucina di fantasmi e di stati emozionali. 

I presidi tecnici e deontologici raccomandati da Freud, possono,  invece, essere racchiusi nella costituzione del setting, di cui è allusivo “la stanza con la porta chiusa” di cui parlavo all’inizio. Il setting è molto di più. E’ un centrale punto di convergenza di teoria e tecnica ed è un fattore di cura. Inizialmente proposto laconicamente da Freud negli scritti sulla tecnica, è apparso essere un concetto metapsicologico. Non deve sorprendere, pertanto, che col tempo si sia animato di vita propria, rivelando un’insospettabile duttilità.  Lo psicoanalista Racamier ha perfino teorizzato una psicoanalisi senza divano. Il rigore, spesso criticato, che connota il setting psicoanalitico, infatti, è semplicemente dovuto alla necessità, indicata da Freud, di evitare che fattori extrapsichici potessero distogliere dalla scoperta dell’inconscio del pz. nella relazione analitica. L’estensione del setting comporta necessariamente anche un’estensione dell’Inconscio. E’ quanto accade allorché nelle Psichiatrie, universitarie e territoriali, oltre alla ”normale” psicoterapia, si attivano dispositivi di cura di pz. gravi  con il necessario corollario di approfondimento e sostegno delle dinamiche complesse e profonde nel gruppo dei curanti. Il setting, delimitato non più da solide mura, ma da linee relazionali invisibili, consente una pratica della psicoanalisi.

La parola inglese vuol dire semplicemente “installazione, collocazione”: ha, cioè, a che fare con lo spazio. Significa, anche, “definizione, delimitazione”: allude ad un sistema di regole. Al di fuori della psicoanalisi, viene prevalentemente individuato nelle scienze sociali ed è “il contesto entro cui un evento sociale avviene”. Nella psicologia ecologica di Roger Barker (1968), è l’insieme dei fenomeni comportamentali, dei pattern circoscritti e stabili di attività umane con un sistema integrato di forze e controlli che mantengono tali attività in un equilibrio semistabile.

Il setting psicoanalitico oggi è inteso come l’insieme degli elementi “esterni” che inquadrano e consentono l’articolazione del procedimento analitico ma ancor di più degli elementi “interni” ed inconsci che passano nel setting come simbolizzazione o affidamento diretto degli aspetti simbiotici di pz. ed analista.

Lo psicoanalista argentino J. Bleger lo ha assimilato alla primitiva relazione simbiotica con la madre, da cui dipende la formazione dello schema corporeo, dell’Io e della sua capacità di relazione oggettuale. Inconsciamente proiettata nel setting, essa ne fa il suo sfondo silenzioso. A sua volta, il setting se ne rende garante e può così realizzarsi la trasformazione dello sfondo in processo.

Si potrebbe dire che sono queste dinamiche originarie ed universali ad attivare un abbozzo di setting che, dunque, richiede di strutturarsi anche fuori dello studio dell’analista.

Ovvero, una volta modificata la funzione dei presidi asilari, nei servizi psichiatrici.

Conviene qui fare una digressione chiara dal discorso centrato sull’individuo e spostarlo sull’istituzione ed il gruppo.

Esso è già fortemente presente nel pensiero freudiano dedicato alla cultura ed al processo di civilizzazione. 

Nel 1955 E. Jacques avanza l’ipotesi che i sistemi sociali, le istituzioni, le convenzioni sociali vengano usati come difese (metadifese) contro le angosce e i processi psicotici.

E’, tuttavia, il pensiero di Bion ad indurre il transito della concezione della mente da individuale a campo bipersonale o pluripersonale attraverso l’uso sistematico che il bambino fa della scissione e dell’identificazione proiettiva.

Le ricerche recenti più efficaci mi sembrano essere state quelle di A. Correale (1991), psichiatra e psicoanalista, che ha messo a punto il concetto di campo istituzionale, ove la psicoanalisi, nella sua originalità, non ha avuto difficoltà a fare un momentaneo passo indietro a favore di un modello antropologico-relazionale della malattia. Modello, quest’ultimo, che consente alla malattia di acquistare significato e comprensibilità attraverso il costituirsi di una relazione complessa, di comunicazione affettivizzata con un curante o con un gruppo di curanti.

Come preannunciato, compare sulla scena della cura l’équipe gruppale: sovente fornita di confini mobili, per lo meno sul versante interno, e nel contenitore non più della stanza d’analisi ma dell’istituzione. Essa è un tipo particolare di gruppo, con modalità di strutturazione, funzionamento ed evoluzione che attivano un campo gruppale istituzionale complessivo che interagisce con la malattia.

Il setting istituzionale può essere assimilato all’istituzione. Bleger (1960-’71) in proposito dice che essi hanno le stesse strutture costitutive, in senso ampio. Entrambi possono essere definiti come una relazione, o un sistema di relazioni che si protrae per lungo tempo, regolata da una serie di norme condivise … se sussiste una continuità e una serie di norme in grado di regolarla, si attiva immediatamente anche un fattore legato alla fisicità di quella continuità, alla presenza regolare dell’altro o degli altri …

Il lavoro di Correale ha segnato una tappa importante. Oggi le ricerche sui gruppi procedono.

 

Ma, se siamo dotati di un così ricco background, come mai ci sentiamo affetti dalla solitudine? E, per di più, da una solitudine affollata e rumorosa!?

Bisogna, innanzitutto, riconoscere che il nostro sapere, per quanto già messo alla prova dell’esperienza , è tutt’altro che sistematizzato: esso è ora allocato  in “nicchie ecologiche” (Barale), ora compare e scompare come un fiume carsico, ora veleggia su alcuni mari quando il vento è a favore. Questo non è del tutto un male, poiché ritengo che la sistematizzazione d’intervento non si adatti alla sofferenza psichica. Al contrario, sarebbe opportuno mettere a punto progetti quanto più è possibile mirati e personalizzati.

Può essere d’aiuto ad una divulgazione sensibile rispondere con la propria specificità all’obbligo imposto dagli Ordini professionali di formazione permanente.

D’altra parte, afflitti, per certi versi, dalla consapevolezza interiore di un eccesso di sapere, gli operatori della Salute Mentale sono bersagliati da aspettative, quesiti e richieste eterogenei e, a volte, contraddittori.

Personalmente, ma so di essere, in questo caso, in buona compagnia, ne ho sofferti due. 

Innanzitutto mi sembra che l’aziendalizzazione dei presidi di cura, e universitari e territoriali, abbia immesso nel delicato tessuto delle prestazioni professionali dei fattori rivelatisi disturbanti. Innanzitutto, l’ottimizzazione dei costi e dei benefici: operazione poco remunerativa se riguardante  situazioni umane ove è ragionevole prefiggersi un miglioramento della qualità di vita piuttosto che il pieno benessere. La ricaduta sulla disponibilità di spesa per la psicoterapia è stata catastrofica.

Al contempo, si è verificato un appesantimento delle pertinenze relative allo psichico (intrapsichico, interpsichico, relazionale, inter e transgenerazionale) ad opera dell’extrapsichico ,ovvero di quelle cause d’infelicità e, a volte, di disperazione di natura sociale: povertà, mancanza di lavoro, invecchiamento, malattie organiche o invalidità presenti nel nucleo familiare, degrado ambientale. Per quanto separate da un confine fluido, queste due rappresentazioni dell’umano vanno affrontate con strumenti diversi. Molti quadri di urgenza psichiatrica, a mio avviso, possono, sul territorio, o ai primi sportelli di ascolto, essere contenuti con interventi di supporto sociale.

A conclusione, poi, di questo mio contributo che redistribuisce l’attenzione alle problematiche psichiche fra l’offerta e la richiesta con modalità forse un po’ troppo cangianti, vorrei dire che la SPI sta attivando sull’intero territorio nazionale, presso le proprie sezioni locali, Centri di Consultazione e Terapie psicoanalitiche, che, per statuto di contatto ed erogazione, possano raggiungere una platea sociale ampia.