Report a cura di Eleonora Vivo
Il 03 Dicembre scorso, presso il Centro Napoletano di Psicoanalisi, si è svolta la giornata dedicata al pensiero di Celestino Genovese, socio ordinario della Spi e docente di psicologia dinamica presso l’Università della Campania L. Vanvitelli, attraverso il quale molti analisti e candidati devono i primi insegnamenti di teoria freudiana e post-freudiana.
E’ stata una giornata attraversata da una profonda commozione, una tappa fondamentale sulla via dell’elaborazione del lutto di quanti, avendo potuto direttamente godere ed arricchirsi degli scambi teorico-clinici, ne mettono ora a disposizione il ricordo, rendendolo in tal modo fruibile per tutti, patrimonio scientifico e culturale dell’intera comunità professionale.
La prima parte della giornata è stata dedicata precipuamente al suo pensiero teorico-clinico ed ha visto come relatori gli analisti che hanno percorso assieme a lui un buon tratto di vita professionale, inevitabilmente intrecciata al legame personale ed affettivo. Le voci dei testimoni e dei co-attori della nascita psicoanalitica di Genovese, del suo pensiero via via più autonomo, critico e creativo nonché della sua viva partecipazione al Cnp (Franco Conrotto chair, Fausta Ferraro e Diomira Petrelli), si alternano a quelle che lo riconoscono come maestro ed interlocutore privilegiato, pur individuandone aspetti di distanza teorico-clinica (Riccardo Galiani, Darwin Mervoglino, Paolo Cotrufo).
Emerge il quadro di uno studioso e ricercatore che, pur avendo radici ben piantate nel modello teorico-clinico freudiano e riconoscendo come maestri Gaddini e Winnicott, non resta arroccato in una sterile idealizzazione, riuscendo a capitalizzare i punti di forza senza dimenticare uno sguardo critico ai punti di debolezza, non per distruggere o demonizzare ma per continuare la ricerca e rendere più forte il modello e la conoscenza sull’apparato psichico ed il suo funzionamento.
La giornata, moderata da F. Conrotto, inizia con la relazione di Fausta Ferraro con la quale Genovese condivide il suo percorso formativo fin dagli anni universitari, attraverso il training e la nascita del Cnp, del quale è stato più volte presidente. La relazione di Fausta Ferraro è un viaggio nella e della memoria, che – ripercorrendo le tappe fondamentali della ricerca psicoanalitica di Genovese, attraverso i nodi delle pubblicazioni scientifiche e delle comunicazioni orali ai numerosi convegni e giornate scientifiche da lui abitate come protagonista attivo – ci offre una visione a tutto tondo dell’impegno teorico-clinico di Celestino.
Ripetizione narcisistica e creatività primaria, improntati dagli autori di riferimento che ne rappresentano la “genealogia identificatoria” (S. Freud, Gaddini, Winnicott), sono i temi che iniziano a delinearsi nel pensiero di Genovese fin dal 1988, anno in cui presenta un lavoro al primo convegno della Spi con base logistica al Cnp. Così come l’interesse all’universo sensoriale nell’esplorazione per il protomentale che si rintraccia già nel 1986 (in un lavoro inedito presentato ad una giornata dedicata a Gaddini) e presentato più compiutamente in due lavori successivi: “Il protomentale nel setting psicoanalitico” (1991); “La fantasia-realtà nella dimensione proto-mentale (1995). Ferraro ci ricorda quanto l’attenzione al proto-mentale, combinandosi a quella per il setting, rappresenti “la trama portante del suo pensiero fino alla fine”.
Un aspetto centrale sottolineato da Ferraro, così come da tutti i relatori della mattinata, è il dialogo incessante che intrattiene con Gaddini, che dà luogo a tre lavori quali “Economia della mente e relazione”, la raccolta di scritti da lui curata “Corpo-mente e relazione”, “Aggressività, Istinto o pulsione?”, un lavoro di taglio metapsicologico con attenzione al punto di vista economico e problematizzante la non attenzione gaddiniana per la distinzione tra instict e tribe. In esso inoltre, Genovese rilancia la distinzione tra il sollievo ed il piacere, il primo adatto alla descrizione della scarica della tensione aggressiva, il secondo da ascrivere invece all’economia pulsionale.
Ricordando l’antologia su Setting e processo psicoanalitico (1988), Ferraro tratteggia tre aspetti essenziali del pensiero di Genovese:
1. Il nesso stringente tra teoria della tecnica e metapsicologia, all’interno del cui discorso trova posto una revisione post-freudiana (Winnicott e Bleger) del rapporto tra setting e interpretazione, che vede il primo non più come precondizione ma come agente terapeutico;
2. La ricerca sulle forme del setting;
3. L’integrità personale come strumento di lavoro in connessione al setting;
Ferraro non manca di ricordare l’importanza dell’opera di Winnicott per Genovese, a cui dedica diversi scritti, e, viceversa, l’importanza che assume Genovese per la diffusione di Winnicott, contribuendo a “sfatare la vulgata banalizzante del pensiero winnicottiano”, offrendo una chiave di lettura del pensiero dell’autore come fondato sul paradosso nei suoi caratteri fondativi ed epistemologici. Allo stesso modo, nelle introduzioni a “La realtà psichica” (primo quaderno Cnp Borla del convegno fondativo del Cnp), si coglie l’impegno di Genovese a contrastare la banalizzazione della scoperta freudiana.
“Rivoluzione epistemologica”, “rigore scientifico” e “chiarezza espositiva”. Per ammissione di Genovese al Convegno “Presenza di Freud” (2006) – così come ci ricorda F. Ferraro al termine della sua relazione – l’insieme di questi tre elementi rappresenta l’imprinting e la matrice che lo hanno ispirato e guidato nella sua pratica clinica e nella sua ricerca teorico-scientifica.
Genovese viene ricordato dalla seconda relatrice della giornata, Diomira Petrelli, con la quale ha condiviso una parte di formazione e di contesto istituzionale, come un professore nel senso positivo del termine, dotato di chiarezza espositiva ed argomentativa. Ricorda inoltre quanto fecondi fossero per entrambi i loro confronti teorici, anche se caratterizzati da differenziazioni via via più importanti.
Prima di affrontare il nucleo della sua relazione, riguardante un punto di incontro e discussione comune, l’importanza cioè del ritmo e delle forme autistiche, Petrelli individua tre aspetti trasversali ai lavori di Genovese:
1. La stretta connessione tra teoria e clinica;
2. L’evidenziazione della ricaduta clinica di alcuni cambiamenti a livello teorico e, viceversa, la ricaduta metapsicologica di alcuni cambiamenti di tecnica che si rendono necessari nel lavoro analitico con pazienti non nevrotici;
3. L’attenzione per l’inquadramento storico dei concetti psicoanalitici, particolarmente fecondo nella misura in cui ci consente di collocare i concetti psicoanalitici nella loro genesi, evoluzione, le loro discontinuità e continuità.
Pur avendo radici lontane, l’interesse di Genovese per le forme autistiche e le condotte auto-sensuali, si sviluppa in una serie di scritti tra il 90 e il 2006 (“Ripetizione narcisistica e creatività primaria nella situazione analitica” – “Presentazione di cosa e forme auto-prodotte nella situazione analitica” – “Angoscia catastrofica e protezioni autistiche” – “Vertigine e non senso nella depressione psicotica”). Genovese riprende le teorizzazioni della Tustin sui nuclei/sacche autistiche, aree segrete di funzionamento autistico, riscontrate non solo nei bambini autistici ma anche in pazienti adulti gravi ed adolescenti. Questi nuclei vengono descritti come un uso particolare della sensorialità, a difesa/protezione di aspetti estremamente fragili e feriti. Nel descrivere il lavoro della Tustin, Petrelli sottolinea uno snodo importante e cioè quanto, il lavoro con pazienti che presentano una patologia molto diversa e lontana da quella nevrotica, come appunto i bambini autistici, ci consenta di affinare le nostre capacità osservative, di cogliere e interpretare in modo diverso delle aree di funzionamento che possono essere presenti in pazienti che oggi definiremo borderline o negli adolescenti. Tale lavoro ha permesso alla Tustin di entrare in contatto con la diversa qualità dell’angoscia devastante del bambino autistico e, sensibilizzata da questo tipo di osservazione, di riscontrare una simile qualità dell’angoscia, annichilente, nascosta dietro le condotte autistiche o simil-autistiche, definite come manovre proto-difensive rispetto a questo tipo di angoscia. Nei pazienti adulti, soprattutto in alcuni casi di anoressia, la Tustin individua la presenza di manovre segrete sul corpo che svolgerebbero la stessa funzione protettiva e di barriera che svolgono nei bambini autistici; una sorta di grappoli di sensazioni nelle quali il paziente si avvolge a scopo auto-calmante. Non sono condotte sorrette da fantasie ed hanno una qualità quasi ipnotica e seduttiva. Sono modalità aberranti di sviluppo che costituiscono un imprigionamento, una sorta di guscio autoprotettivo di sensazioni corporee dalle quali è difficile uscire.
Genovese riprende queste osservazioni della Tustin, coniugandole sia con le osservazioni di Winnicott che con i suoi precedenti studi sul setting (con riferimento a Bleger), nonché con il concetto gaddiniano di organizzazione mentale di base e di area psico-sensoriale. Ipotizza dunque due aspetti importanti tra loro interconnessi, l’uno tecnico e l’altro metapsicologico. Differenziandosi dalla Tustin, Genovese ipotizza che le condotte basate su effetti sensoriali autoprodotti non hanno solo un aspetto difensivo di una parte molto fragile e vulnerabile ma anche una potenziale rilevanza integrativa del fragile sé del paziente. Ciò conduce a cambiamenti nella tecnica e nell’uso dell’interpretazione. Riprendendo le indicazioni winnicottiane e gaddiniane, Genovese sottolinea la necessità di una grande cautela nell’uso dell’interpretazione che potrebbe risultare effrattiva rispetto ai bisogni integrativi silenti del paziente. L’indicazione è, dunque, quella di dare maggiore rilevanza e peso al setting come ambiente affidabile che possa fare da sfondo ai processi integrativi del sé. Ma lo studio delle forme autistiche porta con sé anche la necessità di una revisione teorica e metapsicologica che dia maggior conto del funzionamento protomentale. In primo luogo, Genovese ci indica che questa strada di ricerca ci potrebbe aiutare a comprendere il passaggio da una modalità di funzionamento pre-rappresentazionale ad una modalità che è sulla strada della rappresentazione, cioè il misterioso salto dal corporeo alla psichico, sul quale da sempre la psicoanalisi lavora. Genovese dunque ipotizza che “la capacità di produrre queste forme derivi da un’attività più precoce non specifica del funzionamento autistico, del tutto funzionale allo sviluppo del bambino, un’attività dell’organizzazione dell’esperienza sensoriale al servizio dei processi integrativi”. Queste forme si organizzano nella seduta analitica in forma silente e continua, suggerendo un ritiro dalla relazione che però è interpretabile come una fruizione sensoriale dell’ambiente analitico, che consente una graduale integrazione degli aspetti arcaici. Una regressione benefica, un contatto sensoriale integrante.
Petrelli nota quanto le forme autistiche costituiscano un punto di discussione che resta aperto: quanto cioè queste condotte auto-sensuali possono essere lette come protezioni che consentono la sperimentazione dell’ambiente e di sentirsi sostenuti dall’affidabilità del setting analitico? E quanto invece possono rappresentare qualcosa di più perturbante e lesivo, implicando una chiusura che non permette di ricontattare l’oggetto? E’ una questione sia metapsicologica che tecnica in quanto ci spinge a chiederci quanto possa bastare l’affidabilità del setting a permettere questo livello primitivo di integrazione del sé e quando invece è necessario che l’analista intervenga in maniera più decisa per mettere fine a queste condotte. E’ un quesito che resta aperto, che ci indica quanto sia importante differenziare i pazienti a cui ci riferiamo e quanto sia importante la sensibilità ed il tatto analitico per individuare la posizione tecnica importante in quel momento, con quel paziente.
Nel concludere la sua relazione, Petrelli sottolinea quanto il lavoro e l’impegno di Genovese nella sua revisione teorica, tecnica, metapsicologica, pur restando nel solco Freudiano, sia un invito ed un incoraggiamento alla non adesione fideistica ai modelli teorici.
La relazione di R. Galiani, intitolata “Celestino e il morbo gallico”, è incentrata sugli elementi epistemologici che determinano in Genovese una dichiarata presa di distanza dalla corrente psicoanalitica francesce (attrazione da lui giocosamente denominata “il morbo gallico”) e su quelli che, suo malgrado, lo avvicinano invece alle cosiddette “aree galliche”.
Riccardo Galiani ci racconta come “Celestino leggeva sé stesso”, i “movimenti del suo pensiero” ed il modo in cui “leggeva Freud con Freud, interrogandolo, interpretandolo”. Viene rafforzato un’importante aspetto di Genovese, quello che lo vede profondo conoscitore della psicoanalisi, padrone della teoria e della clinica che continuamente dialogano, tanto da poter individuare non solo gli aspetti critici dei suoi autori di riferimento ma anche gli aspetti di debito verso una tradizione teorica dalla quale meno si sentiva rappresentato e dalla quale prendeva le distanze. E’ il caso della tradizione Lacaniana, apprezzata per la propensione alla valorizzazione delle risorse della metapsicologia freudiana, ma guardata con sospetto rispetto al rapporto tra rappresentazione psichica e linguaggio. Rapporto che considerava eccessivo in relazione al protomentale, nella misura in cui il verbale-rappresentativo, fatto di dinamiche psichiche che sono dell’altro, il “già lì”, che accoglie il bambino e fonda, rischia, secondo Genovese, di essere portatore di derive misticistiche o suggestive di scorciatoie non convincenti sull’origine non biologica della pulsione (Laplanche).
Il punto di distinzione tra il pensiero di Genovese e la psicoanalisi francese si colloca non tanto rispetto alla preminenza accordata alla metapsicologia e alla costante attenzione per Freud, elementi invece che possiamo considerare di contatto, ma rispetto al ruolo e all’effetto da accordare al sessuale infantile inconscio, cui la madre è assoggettata, nella relazione primaria. Dallo scritto del 2003, “La pulsione e il suo oggetto”, appare con evidenza quanto Genovese si interrogasse sul ruolo della sessualità materna rispetto all’oggetto (bambino), affermando: “non si tratta di scartare la donna nella madre. (..) Intendo dire che, quando il bambino è oggetto dell’investimento sessuale materno, ciò si traduce per lui in un’esperienza auto-sensuale”. Esperienza considerata da Genovese come fondamentale ai fini del processo di soggettivazione in atto. Le funzioni materne di holding e di handling sono quindi impensabili senza una sessualità materna e ciò comporta implicazioni fondamentali rispetto alla tecnica e al setting, le cui costanti vengono considerate equivalenti alla funzione materna.
Un interrogativo comune tanto alla psicoanalisi francese, quanto all’indagine di Genovese riguarda dunque il ruolo del pulsionale negli esordi della vita psichica del soggetto umano. Non è in questione, nel suo pensiero, la centralità della pulsione sessuale ma l’applicazione tout court della metapsicologia agli esordi della vita psichica, al protomentale. Già nel 1998, in “Economia della mente e relazione”, afferma l’inadeguatezza della teoria strutturale per descrivere il funzionamento protomentale dal punto di vista economico. Più avanti questa tesi è portata avanti nel sottolineare l’inadeguatezza del modello fissazione-regressione ai fini della comprensione ed interpretazione di condizioni psicopatologiche che traggono origine da quanto accade nelle esperienze psichiche più precoci, mantenendo la centralità dei concetti di pulsione, rappresentazione e rimozione allorquando il processo di soggettivazione è invece già compiuto. Per Genovese dunque, non è in discussione la centralità della pulsione sessuale ma il suo ruolo agli esordi della vita psichica, impensabili al di fuori della relazione con l’altro e il suo inconscio. Come Winnicott, anche Genovese non esclude il sessuale ma lo tiene dentro il processo maturativo dell’Io ossia “all’interno di una ricostruzione delle dinamiche evolutive che consentono di fondare il sessuale come il rappresentante psichico del somatico”.
Galiani nota quanto il punto di vista evolutivo di Genovese sia metodologicamente coerente con quello di Freud sebbene non completamente sovrapponibile.
Nella conclusione della relazione di Galiani è possibile rintracciare un Genovese grazie al quale non solo riscopriamo il radicamento freudiano di Winnicott, potendone apprezzare le risorse, ma che mantiene la rotta del metodo e del modo psicoanalitico di affrontare le questioni teoricamente più spinose e dibattute, senza scivolare in facili banalizzazioni o sterili controversie.
Segue la relazione di D. Mervoglino che più compiutamente ci permette di apprezzare la valorizzazione del punto di vista economico ed il fondamentale contributo di Genovese alla teoria dell’angoscia. Mervoglino mostra l’originalità del suo pensiero, la creatività nel far dialogare Freud con Winnicott e Winnicott con Freud, nonché la sua capacità di mettere al lavoro il pensiero di Gaddini ed il suo concetto di Funzionamento Mentale di Base.
Il contributo di Genovese alla questione si colloca in punto preciso del percorso della teoria psicoanalitica, all’interfaccia tra Freud e Winnicott: l’angoscia sperimentata di fronte alla prima situazione di pericolo, quella della nascita, viene assunta da Freud come il prototipo economico di tutte le forme d’angoscia future e viene ripresa da Winnicott nei termini di un’angoscia relativa all’annientamento. Genovese riparte da qui, proponendo due livelli di sofferenza psichica, una dimensione drammatica ed una dimensione catastrofica, a cui corrispondono angosce differenti: “Per dimensione drammatica intendo quella che poggia su uno dei capisaldi della teoria freudiana e cioè sul tessuto fantasmatico inconscio, caratterizzato da una trama più o meno complessa e generatrice di conflitti, che trovano molto spesso la loro espressione nel compromesso di un quadro sintomatico variamente articolabile. (…) Parte del lavoro analitico consiste nello svelamento del senso di questa soluzione creativa e nel sofferto riconoscimento che la trama dell’Edipo è la “mia” trama (…) Per dimensione catastrofica intendo, invece, la brusca rottura di un equilibrio che comporta il collasso dell’organizzazione psichica nel suo insieme. Questa rottura, perciò, non è soggetta a rimozione, e non è rielaborabile mediante la narrazione. Il suo carattere inconscio ha implicazioni per certi aspetti cognitive: esso, infatti, non è la conseguenza di un meccanismo difensivo, bensì costituisce la sua natura di evento non inquadrabile dall’esperienza. Ciò può accadere o perché l’organizzazione psichica si regge in maniera precaria, o comunque perché inadeguata, dal punto di vista economico, a sostenere un impatto quantitativamente insostenibile” (p. 12 e 13).
Anche Winnicott distingue un’angoscia dell’Io, legata alla dimensione della tragedia e alla sfera del conflitto, da un’angoscia di annientamento o catastrofica, in cui la catastrofe è rappresentata dalla rottura dell’equilibrio psiche-soma in assenza di un Io in grado di legare e organizzare gli stimoli. Tuttavia Genovese va oltre, cerca di superare il limite rintracciato nella teoria winnicottiana, alla quale addebita di non sviluppare il modo in cui il funzionamento psichico dei primi tempi di vita si articola con lo sviluppo psichico successivo e come quest’ultimo si articoli con gli incidenti dei primi tempi di vita. E’ in questo punto che Genovese utilizza in maniera creativa e proficua la teoria di Gaddini sul proto-mentale e l’organizzazione mentale di base, l’organizzazione primitiva che la psiche raggiunge nei primi mesi di vita, quando l’infante incomincia a distinguere il “me” dal “non me”, considerata una prima forma creativa della mente.
Anche nel pensiero di Gaddini l’angoscia gioca un ruolo centrale, sia nell’esperienza di un sé separato, sia nei processi di integrazione che diventano tanto più angosciosi quanto più insostenibile è il riconoscimento della propria separatezza. Tuttavia Mervoglino ritiene che l’angoscia di perdita di sé di cui parla Gaddini non sia sovrapponibile all’angoscia catastrofica di Genovese poiché la prima è già conseguenza di un primo, embrionale tentativo dell’organizzazione psichica di fronteggiare l’eccesso non contenibile di stimoli e affrontare il processo di integrazione. Spingendosi più avanti, a considerare quella fase della vita priva di un’organizzazione psichica, Genovese ritorna a Freud e al concetto di angoscia come segnale di pericolo, recuperando e valorizzando il punto di vista economico e cioè considerandola come una perturbazione economica in cui gli stimoli eccedono la possibilità di legarli. Sebbene la natura dell’angoscia sia sempre la stessa ed implichi sempre una sensazione di annichilimento, ciò che muta è l’aspetto economico in connessione al funzionamento dell’Io ed alla sua capacità di modularla. E’ da tali elementi che dipenderà la forma dell’angoscia. In questo senso Mervoglino propone un modello evolutivo dell’angoscia, un continuum che prova a rendere conto anche di funzionamenti non patologici, che vede come primaria un’angoscia catastrofica (o di annientamento/non integrazione), alla quale segue l’angoscia di perdita di sé (o di integrazione), l’angoscia di separazione ed infine angoscia di castrazione.
Genovese ha in mente diversi livelli di funzionamento ed è contrario ad una stratificazione statica di differenti quadri patologici, considerando invece l’attività psichica come caratterizzata da una “reattività dinamica” che si riorganizza mediante le difese di cui dispone, secondo il criterio della massima economia possibile.
Il suo contributo ha implicazioni cliniche importanti che riguardano i disturbi exta-nevrotici: egli ci spinge a considerare la differenza che passa tra la rottura della continuità di sé nell’ambito della relazione primaria e la rottura della fantasia di un suo ristabilimento nel contesto del primato fallico. Da questo vertice inoltre, diventa fondamentale nell’incontro con il paziente, comprendere con quale livello dell’angoscia abbiamo a che fare nonché considerare le soluzioni difensive che potrebbero costituire forme ibride di funzionamenti primitivi e funzione rappresentativa.
Secondo Genovese dunque, i fallimenti che occorrono nella relazione primaria, piuttosto che congelarla come riteneva Winnicott, comportano un intenso lavoro psichico allo scopo di fronteggiare l’angoscia catastrofica. Ciò avviene attraverso quelle che definisce “protesi di senso”, costruzioni narrative a posteriori di esperienze non vissute soggettivamente che assolvono la funzione economica di legare l’angoscia catastrofica. Attraverso l’esemplificazione clinica, Mervoglino ci descrive come le protesi di senso assumono la forma di una narrazione fittizia, che poggia su una trama mutuata da fasi successive dello sviluppo, al fine di rendere pensabile ciò che non lo è, l’angoscia catastrofica per l’appunto, allontanando in tal modo la dimensione catastrofica della non coesione di sé. All’esplorazione psicoanalitica questa trama appare rigida, priva di profondità, non trasformabile. Esse differiscono dall’attività rappresentativa psicoanaliticamente intesa, cioè la ri-presentazione alla mente di un’esperienza che in questo modo viene dotata di senso. Differiscono nella misura in cui l’attività rappresentativa nasce quando l’infant, che ha già iniziato a differenziare il me dal non me, può fare esperienza dell’oggetto e dunque dell’oggetto perduto. Al periodo in cui si sperimenta l’angoscia catastrofica di cui parla Genovese, per l’infant non c’è ancora nessun oggetto che può essere perduto, da ri-presentare e di cui poter elaborare il lutto. Pezzi di vita successiva, narrazioni di esperienze successive, vengono dunque utilizzate come protesi che forniscono un significato e legano l’angoscia intesa come perturbazione economica.
Al termine della sua relazione, Mervoglino situa il contributo di Genovese accanto a quelli di autori come Bollas e Ogden, sottolineando quanto la sua teorizzazione ed il suo lavoro di connessione e revisione del modello winnicottiano con quello freudiano, arricchisca il vasto campo dello studio dei casi limite.
La mattinata si conclude con la relazione di Paolo Cotrufo che, ricordando il tempo condiviso con Genovese non solo nell’ambito della Spi ma anche universitario, tratteggia il profilo di una personalità arguta, pungente, dotata di umorismo psicoanalitico, generosa nel suo voler trasmettere conoscenza alle nuove generazioni di colleghi e studenti.
L’intervento di Cotrufo riguarda il circuito corpo-mente-corpo, l’interesse di Genovese per il corpo connessa alla sua curiosità sull’origine: cosa accade in origine? Perché? In che modo succede? Come avviene il passaggio dall’istinto alla pulsione e dal bisogno al desiderio?
Cotrufo ci presenta alcune idee molto forti in Genovese che, interconnesse tra loro, capovolgono l’idea classica patogenetica della patologia somatica e dello psichismo primitivo.
L’idea di un pre-, di un proto, di qualcosa che precede sempre la presenza di qualcos’altro: il pre-pulsionale, il pre-verbale, il protomentale. Secondo Genovese, applicare il modello freudiano della fissazione-regressione a tali aree costituisce una “contraddizione in termini” e finirebbe per trasformare una teoria del sessuale in una teoria dello sviluppo tout court. In particolare, tale applicazione spingerebbe a considerare le crisi psicotiche o i sintomi psicosomatici come stati/momenti primitivi e fisiologici. Nel pensiero di Genovese invece, la psicopatologia è innanzitutto una soluzione, un malfunzionante tentativo di cura rispetto a ciò che avrebbe potuto essere altrimenti. Una soluzione che richiede un’elaborata attività psichica di natura difensiva che non può essere ipotizzata in fasi così precoci di sviluppo. Secondo Genovese il modello fissazione-regressione che rende conto delle psiconevrosi non può spiegare né le psicosi, né le psicosomatosi. Ciò rappresenta nel suo pensiero una forzatura, da ascrivere alla teorizzazione kleiniana e soprattutto alla psicoanalisi francese.
Genovese invece considera le soluzione patologiche e le manovre difensive come un processo creativo che intervengono nel momento in cui l’ambiente, winnicottianamente inteso (il bambino come unità psicofisica e l’unità madre-bambino), non funziona in modo sufficiente, minacciando la formazione di un apparato psichico. Quando manca il seno – inteso non come oggetto esterno al sé del bambino ma come esperienza interna di sollievo delle proprie pene, esperienza garantita dalla presenza di una madre che mette il seno là dove il bambino se lo aspetta, diventando dunque per il bambino un seno creato da sé – non vi sarà sollievo, resterà la pena e soprattutto l’annichilimento, inteso come annientamento, crollo psico-fisico. In accordo con Winnicott, Genovese considera il lattante come un’unità psico-fisica la cui esistenza è impossibile se non in coppia con la madre. E’ in questa relazione primaria che risiedono i presupposti dell’attività psichica e la possibilità di accedere allo sviluppo dello psichismo così come inteso da Freud.
Le minacce di annichilimento non sono patologizzanti di per sé ma anzi sono capaci di promuovere una prima organizzazione dell’Io, nella misura in cui non sfociano in un annichilimento proprio grazie alla presenza di una preoccupazione e accoglienza materna. Il passaggio allo psichico è reso dunque possibile dal lavoro materno che promuove l’integrazione delle funzione egoiche.
Rispetto al posto spettante al sessuale è in questo punto il maggior conflitto tra la visione dell’origine di Genovese e quella proposta da buona parte della psicoanalisi francese. Mentre per il primo infatti, lo sviluppo sessuale è in nuce nel bambino, la seconda immagina cure materne infiltrate di un sessuale inconscio che producono nel bambino l’esigenza di far fronte, in epoca prematura, al sessuale. E’ l’infiltrazione del sessuale materno che imporrà la necessità di sviluppare un apparato psichico traduttivo.
Sul versante clinico e patogenetico, Genovese si interroga sul nesso tra il crollo/rottura originaria e le soluzioni patologiche escogitate nel corso della vita, dalle affezioni di carattere psico-fisico alle psicosi. La teoria delle primissime fasi dello sviluppo rappresenta, nelle parole di Genovese, uno spostamento dell’attenzione “(…) sui processi attraverso i quali viene costruita nel tempo (anche in età adulta) la soluzione patologica ad un buco nero sperimentato quando il soggetto ancora non si era costituito come tale”.
Cosa che non va confusa con un abbandono della metapsicologia freudiana, che invece, con Gaddini, è tenuta sempre presente valorizzandone soprattutto il punto di vista economico.
Per quanto riguarda le affezioni psicosomatiche, Genovese riprende la teorizzazione gaddiniana del circuito corpo-mente-corpo; tragitto che prevede un primo passaggio del corpo attraverso la mente, subendo una trasformazione, assumendo cioè un “senso” che prima non aveva. Ricordandoci la teorizzazione di Gaddini, Cotrufo ci parla delle sindromi psicofisiche in cui la fantasia è solo apparentemente assente (come nel pensiero operatorio descritto da Marty e De M’Uzan), presentandosi come “fantasia nel corpo”; della differenziazione funzionale, intesa come apprendimento mentale di un funzionamento fisiologico che acquista così un senso che fisiologicamente non ha, della differenziazione di un funzionamento somatico che si fa funzionamento mentale. Questo funzionamento mentale, mentalmente appreso, è, per la mente primitiva, non appreso ma da essa prodotto. Solo se il corpo assume un senso psichico può farsi carico dell’espressione del disagio. Sta in questo l’essenza delle sindrome datate, che insorgono non prima che la parte del corpo interessata acquisisca un senso psichico. Secondo Genovese questo disagio di cui il corpo si fa carico è l’angoscia di perdita di sé che mobilita manovre difensive contro l’annichilimento reale. Le fantasie nel corpo consentono un barlume di senso alla catastrofe irrappresentabile, svolgendo una funzione economica di non poco conto. A questo livello di funzionamento mentale primitivo, la scarica della tensione economica non avviene attraverso i punti di fissazione alle zone erogene ai quali l’individuo regredisce ma attraverso le risorse disponibili ed al medesimo scopo. L’idea classica della patologia somatica che protegge lo psichismo facendosi carico di un’espulsione viene dunque ribaltata in favore di uno psichismo che tenta di proteggersi da un annichilimento somatico e biologico, che mina la sopravvivenza fisica.
In conclusione del suo discorso, Cotrufo definisce le “protesi di senso”, una particolare manovra difensiva individuata da Genovese, come un uso anomalo della funzione rappresentativa e della memoria autobiografica, individuabile in quei racconti dei pazienti che conferiscono un certo valore patogeno ad alcuni eventi della propria vita che, all’ascolto dell’analista tuttavia, appare incongruo rispetto al malessere che avrebbe comportato. Si tratta di ricordi autentici che secondo Genovese vengono utilizzati per la costruzione di una trama narrativa che, a posteriori, assolve alla funzione economica di legare le angosce primitive altrimenti non rappresentabili poiché appartenenti ad un’epoca della vita in cui lo psichismo non dispone di una capacità rappresentazionale adeguata allo scopo.
Gli interventi del pomeriggio in due tavole rotonde, danno modo di completare la complessità della figura di Genovese.
Nella prima tavola rotonda, la parola ai suoi allievi (A. Cozzuto, S. Cella, M. Ligozzi, F. Parlato, M. Conte) che, attraverso il loro personali ricordi, ci hanno parlato di Genovese nelle sue vesti di professore universitario, la sua passione nel trasmettere il sapere psicoanalitico, risaltando la sua ironia.
Nella seconda tavola rotonda la sua passione per la storia e per l’arte, in ogni sua forma espressiva, dalla pittura alla poesia per giungere alla musica, ci viene raccontata da G. Ascolese e M. Stanzione, con la moderazione di S. Lombardi.
Attraverso l’esposizione delle trame dei due romanzi (La fontana di Bellorofonte e Il caffè delle due porte), Ascolese ci racconta come Genovese fonde ricerca storica e tentativo di ricostruzione del proprio passato, giungendo a ricostruire la storia di una società di provincia. Nel suo stile classico, scelto, elaborato ed elegante, ha immaginato di essere un testimone di altri tempi e di raccontare come fosse un narratore. In entrambi i romanzi si può cogliere un senso di fondo, un messaggio, un modo pensoso e dilemmatico di porsi di fronte al reale con l’elemento dell’attesa; L’attesa degli eventi attraverso cui l’individuo viene chiamato ad operare. Così ad esempio, in entrambi i romanzi tutti i personaggi cooperano e cercano un soluzione che sblocchi il presente verso il domani.
La relazione di M. Stanzione è intitolata Verità e Bellezza a sottolineare il filo conduttore che lega l’arte e la psicoanalisi, in quanto entrambe viaggio e scoperta che tende alla verità. Per Genovese la psicoanalisi si rapporta all’intera dimensione estetica, interroga l’arte e si fa da essa interrogare, in un incontro emozionante, nell’intreccio tra avventura intellettuale e gli intimi affetti che ha riguardato per primo Freud. La relatrice ci ricorda inoltre quanto Genovese avesse fatto sua la frase “Ho lottato tutta la vita per la bellezza perché è l’altro modo di dire la verità (G. M. Crespi); frase che esprime il senso del suo percorso analitico, artistico e umano. Ci racconta quanto “Celestino creativo esprime, in vivo, ciò che in parte, lega arte e psicoanalisi”.
Abbiamo dunque modo di apprezzare fino in fondo la profondità del pensiero di Genovese applicato alle diverse recensioni e commenti ad opere d’arte che ci vengono descritte in questo intervento: dal viaggio verso Itaca di Kavafis, Omero e Joyce, alle opere di Viktor Oliva Magritte, Munch. Genovese ha tradotto anche numerosi brani poetici ed ha reso il suo appassionato contributo a numerose opere musicali e canore.
Genovese ci avverte del legame tra opera d’arte e sogno nel suo scritto “il genio dell’artista e il tormento dell’uomo” e, nel suo commento all’Urlo di Munch afferma: “Un’opera d’arte va vista come una rappresentazione onirica, come una sceneggiatura cinematografica o teatrale, dove tutto ciò che viene rappresentato è espressione dell’autore; che sia la natura o il personaggio al centro della scena ad urlare, si tratta comunque dell’urlo dell’artista, il quale è tale perché si fa efficacemente interprete dell’urlo d’angoscia di chiunque. Quel che noi possiamo dire non riguarda la coerenza logica che ci detta il “processo secondario”, perché l’angoscia è il suo preciso opposto, bensì cercare nella vita dell’autore non tanto le “cause”, quanto il travaglio e la sofferenza che ne hanno segnato il percorso”.