Centro Napoletano di Psicoanalisi

di Ornella Moschella

Il film è ispirato ad una storia vera accaduta nel 1977: l’uccisione di un giovane agente della celere in una manifestazione degenerata in scontro armato a Milano. A questo evento si riferisce una delle immagini simbolo degli anni di piombo: tutti ricorderanno il manifestante che punta la pistola ad altezza d’uomo. Uno di loro colpirà il vicebrigadiere al volto, uccidendolo.

Nel film sono richiamati gli elementi essenziali della storia, a partire dai quali l’autore costruisce la propria  indagine  intorno all’ ‘assenza’, tema senz’altro dominante.

Il film offre anche uno sguardo potente (e mancante!) sulle vite di chi è rimasto e ha dovuto costruire a partire da lì, dalla tragedia, il proprio futuro, i carnefici e soprattutto le vittime. L’analisi storica di quel periodo ha forse trascurato proprio le conseguenze dell’assenza, patite da quelle famiglie.

Nel film la storia di Maria è interpretata da Teresa Saponangelo, con particolarmente intensità ed ispirazione, che è stata capace di mettere in scena col corpo ciò che al corpo è stato affidato, altrimenti inesprimibile, e cioè il grumo di sentimenti sospesi e profondamente insondabili.

Maria nasce appena due mesi dopo il tragico evento che si è consumato in un luogo lontano e altro, e lì è rimasto, anche in un luogo psichico lontano e inavvicinabile. La storia si svolge hai piedi del Vesuvio, in una cittadina sul sul mare.

L’assenza del padre impregna la vita di Maria e soprattutto, chiave della storia, quella di sua madre, presenza ingombrante e muta, come ammutolita sua madre, incapace di profferire verbo se non nei rari sussurri. Contrasta con questa immagine essenziale e dura, la ciarliera zia che frequenta la casa, rappresentante di una normalità apparentemente salva, ma forse anche iperbolica e sonora reazione  a quel silenzio senza risposte.

La scelta del regista all’inizio del film è di catapultare lo spettatore dentro la storia, quando la protagonista si rivolge direttamente allo spettatore, trascinandolo, recalcitrante, ad occuparsene senza che gli venga chiesto il permesso. Il film fin da subito scuote.

Sono tanti gli spunti che le immagini, anziché i dialoghi, scarni ed essenziali, offrono alla riflessione su quelle vite: Maria è dura e contratta anche nei sorrisi, il suo muoversi ha poco di armonioso o fluido, ma è quasi sgraziato, rigido, ‘una pianta secca e senza foglie’ rivela di sé la protagonista, prosciugata dal silenzioso compito che ha ricevuto in eredità, forse ridare vita.

La legnosità di Maria sembra dissolversi quando la donna collabora con un docente in una scuola dove forse la spinge una passione, ma dove poi, per un evento drammatico che vi si svolge, rabbia e disperazione si fanno vive, proprio come aspetti unici e vivi in quella vita sospesa. Anche la vita intorno prova a prendere il volo, ma mai riesce davvero a farcela: ogni storia si spegne, sembra in agguato ed inesorabile il fallimento dei sogni.

La decisione di incontrare l’assassino del padre, ruolo impegnativo egregiamente interpretato da Tommaso Ragno,  personaggio consapevole delle sue azioni, ma non domato dalle proprie esperienze, matura in una stanza d’analisi e se ne coglie l’apparente insensatezza nel viaggio verso Milano. Per affrontarlo la protagonista non può che snaturarsi, trasfigurarsi, diventare un’altra. Il taglio dei capelli, tinti con colori forti, sembra rappresentare la dissonanza colta, ma non elaborata, tra il suo sentire e quello disperato della madre. Maria non  sa come finirà l’incontro e sembra non sapere neanche come affrontarlo; esso comunque avviene con imbarazzo, silenzi, rabbia più o meno silenziosa (la protagonista porta con sé una pistola).

Toccante il momento in cui la protagonista mostra una foto a colori del padre, un ragazzo! lasciando intendere quali colori avrebbe avuto la vita senza quell’ombra. L’incontro’ è infine con il luogo, fisico e psichico, dove il corpo è caduto, dove la protagonista cerca un contatto solo così possibile, lei che pure ha ‘un buco in testa’, in bilico tra identificazione e rivivificazione. Si abbandona proprio là, a terra, dove prima c’era il padre, cioè tra il proprio desiderio e, questa volta sì, l’assenza del desiderio materno.

Il trauma proietta la sua ombra dalla madre alla figlia senza un mandato, scompagina le vite e sembra dilagare oltre. Come non pensare agli scritti di Bollas sul tema dell’ ”ombra dell’oggetto” ed anche alla forza del transgenerazionale che pretende di essere ascoltato e anzi di più, in questo caso, violentemente vissuto.

Maria sembra non voler affatto vivere quel destino (sollecita infatti, con una certa insofferenza, la madre a rispondere alle sue domande, non ricevendo che un sussurro breve e quasi incomprensibile), e trova una sua soluzione, necessaria forse per non soccombere.

Racconta la sua scelta nelle immagini finali del film che scorrono sui titoli di coda: “Poesia”, come ha commentato una spettatrice sensibile, all’uscita dalla sala.

 

Autore recensione: Ornella Moschella – Titolo: Il Buco in Testa
Dati sul film: Regia di Antonio Capuano ,Italia, 2020, 96 min, Genere: drammatico