Centro Napoletano di Psicoanalisi

Mavi Stanzione

Maledetto sia Copernico!”

Legami e connessioni tra luoghi non-spaziali

Foto 1

eliocentrismo

Tutto sudato e impolverato, don Eligio scende dalla scala e viene a prendere una boccata d’aria nell’orticello che ha trovato modo di far sorgere qui dietro l’abside.

Eh, mio reverendo amico, – gli dico io, seduto sul murello. – Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico!

Oh oh oh, che c’entra Copernico! – esclama don Eligio col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia.

C’entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava …

E dàlli! Ma se ha sempre girato!

Non è vero. L’uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso non gira. Io dico che quando la Terra non girava, e l’uomo tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione piena d’oziosi particolari. Si legge o non si legge in Quintiliano, come voi m’avete insegnato, che la storia doveva esser fatta per raccontare e non per provare?

Non nego, – risponde don Eligio, – ma è vero altresì che non si sono mai scritti libri così minuziosi in tutti i più riposti particolari, come dacché, a vostro dire, la Terra s’è messa a girare.

Oh, santo Dio! e che volete che me n’importi? Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza pervenir mai a destino, per farci morire dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci le nostre. Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più?

Abbiamo riconosciuto il dialogo tra Mattia Pascal e don Eligio Pellegrinotto dal celebre romanzo di Pirandello.

Sappiamo che le certezze dell’uomo sbiadiscono, come il buio all’alba, ogni volta che la scienza fa un passo in avanti e che questo è il peso della responsabilità a cui siamo obbligati dalla consapevolezza del sapere.

Foto 2

Narciso

Sappiamo che negli ultimi secoli le certezze dell’uomo hanno dovuto sopportare colpi tremendi.

In Una difficoltà della psicoanalisi, Freud mostra “come, al narcisismo universale, siano state inferte tre gravi umiliazioni da parte dell’indagine scientifica”. Della prima, quella cosmologica, fu responsabile Copernico scardinando il sistema tolemaico, l’uomo non potrà più trovarsi sempre “al centro di un cerchio che racchiudeva il mondo esterno ovunque volgesse lo sguardo”. Per la seconda, quella biologica, inferta da Darwin, l’uomo “non è nulla di più e nulla di meglio dell’animale; proviene egli stesso dalla serie animale”.

La terza, arrecata da Freud, quella psicologica, ha mostrato che l’attività psichica non coincide o non si esaurisce nella coscienza. L’Io incontra limiti al suo potere nella sua stessa dimora. “Questa psiche – dice Freud – è una gerarchia di istanze, un groviglio di impulsi i quali tendono ad attuarsi indipendentemente l’uno dall’altro, in corrispondenza delle pulsioni e delle relazioni col mondo esterno”.

Freud introduce una dimensione della mente sconosciuta, inconscia e che non possiamo controllare completamente con la coscienza.

“L’Io non è padrone in casa propria”. L’uomo non è più al centro dell’universo ma non è nemmeno al centro di se stesso. E allora: chi al centro di cosa? Il concetto di centro si sfuma in un contesto dinamico, poroso e il nostro compasso sarà ogni volta su un centro provvisorio e mutevole.

La scienza ha provato a smontare il narcisismo del genere umano. A ferite, grondanti orgoglio e narcisismo e di fronte alla verità scientifica i dogmi hanno sventolato i veli neri della tradizione e gli strumenti della tortura.

Purtroppo il narcisismo è un osso duro, è perenne come la gramigna e con esso i concetti gerarchicamente dicotomici di centro e periferia.

E se invece una qualche ragione ce l’avesse anche Mattia Pascal?

Certo per lui potremmo ignorare oggi l’esistenza dei neutrini, più veloci della luce, il prima verrebbe sempre prima del dopo, l’effetto dopo la causa e il centro e le periferie sarebbero luoghi statici e garanti di stabilità. La scienza ci pone di continuo in una condizione incerta e noi non possiamo fare altro che accettare i limiti della conoscenza, per ampliare l’estensione di quell’incidente di percorso dell’evoluzione umana che definiamo coscienza.

Questo è ciò che caratterizza il lavoro di civiltà, che l’uomo compie nella sua evoluzione dal verme all’uomo e qui vengo alla psicoanalisi, affermando che essa altro non è che la teoria del lavoro psichico. L’ergonomia psichica è il definiens di psicoanalisi” (senza lavoro psichico nessuna psicoanalisi e senza …). Parliamo infatti di lavoro del sogno, del lutto, della rimozione … lavoro della verità, aleturgia, intendendo per essa lavoro per la verità e verità a lavoro (come afferma F. Napolitano nel lavoro Ergonomia freudiana, Psiche, 2-2017).

Ma la verità è un dato dinamico e MP ricordandoci che “la storia doveva esser fatta per raccontare e non per provare” è forse un sostenitore ante  litteram della post-verità, dove la verità non è oggettiva ma un dato dinamico? E’ forse un freudiano ante litteram per il quale realtà e verità sono determinate da meccanismi psichici, nel cammino del singolo uomo e in quello dell’umanità tutta? E su “verità” e “realtà”, giungo al paesaggio e alla geografia della mente.

Freud, in Analisi terminabile e interminabile, è molto chiaro: “La relazione analitica è fondata sull’amore della verità, ovverossia sul riconoscimento della realtà”.

Ma la verità è il modo di disporsi aderente a quale realtà? A quella materiale, a quella psicologica, psichica e storica, tutte distinte, ma tra loro, intrecciate. Le credenze, le illusioni, i miti, i sogni – che abitano, i vari strati del panorama psichico – non sono meno importanti dei dati che la conoscenza provvisoriamente ci propone nel paesaggio e nel tempo, storico o sognato, dell’umanità tutta.

Qualche ragione ce l’aveva anche MP e il suo pensiero è appartenuto ad un preistorico Io, ma ben conservato entro lo psichico poiché “nella vita psichica nulla può perire una volta formatasi, tutto si conserva e ogni cosa può essere riportata alla luce”. Freud, nel Disagio, ci conduce tra le strade della Città Eterna facendo “l’ipotesi fantastica che Roma (ma qui Matera) non sia un abitato umano, ma un’entità psichica in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti”.

Foto. N. 3

Millepiani

Avvicinando i luoghi psicoanalitici ai luoghi spaziali, accosterò il concetto di campo analitico a quello di paesaggio, mettendo all’opera l’idea che l’uomo abita una realtà porosa, estesa tra mondo interno e mondo esterno, percezioni e memorie, centro e periferia, realtà fenomenica e realtà invisibili, bagnate tutte dal mondo umido delle pulsioni, dalle emozioni e dal sogno.

Il campo, il paesaggio

Il concetto di campo viene mutuato dalla fisica dove fu introdotto per spiegare come due corpi possano interagire anche a distanza e non più solo per contatto.

Sia il campo che il paesaggio hanno implicazioni spaziali e psichiche e non rappresentano entità statiche ma prodotti dinamici. Entrambi, abbinati alla nozioni di spazio e di tempo, sono una realtà viva, che si fa teatro di “storie” in continua trasformazione e che sussistono inalterate le une accanto alle altre (metafora archeologica).

Il campo tra paziente e analista, come il paesaggio, è un luogo potenziale, non è un dato definito a priori bensì ciò che il corpo vivente muovendosi produce, un luogo dinamicamente de-limitato all’interno dello spazio (spatium) che limiti invece non ha.

Ciò che rende luogo una parte di spazio è determinato dalle relazioni e dai legami, affettivi e culturali, lì storicamente prodottisi. Infatti, il campo/paesaggio è un luogo-tempo identitario, una realtà in divenire, umbratile e perturbata che deve la propria complessità al suo carattere di “sistema” cioè «un insieme di elementi, relazioni e significati, intesi non solamente in termini materiali».

Le nostre categorie mentali abitano “un sentiero divisivo” che ha disarticolato fenomeni unitari. Le coppie oppositive di marca cartesiana – occidente e oriente, nord e sud, corpo e mente, soggetto e oggetto, maschile e femminile, attivo e passivo, cosa e parola, inconscio e coscienza, luce e ombra, Eros e Thanatos, Centro e Periferia – esigono una ricostituzione dei loro rapporti, fratturati dal ragionare binario, e della loro complementarietà identitaria.

L’idea di relazione tra coppie antonimiche deve includere tutto ciò che resta fuori da essa, e qui riprendo anche l’idea di caesura, di Bion e le altre bussole conoscitive di uno “spazio terzo”che vada al di là delle dialettiche divisive dei luoghi geografici e psichici. Si tratta di luoghi residui, di paesaggi ai margini delle traiettorie convenzionali. Parlo delle terre di nessuno, abitate dagli “scarti della natura” – le ἐσχατιαί (eschatiài) del mondo greco, dimore di creature mostruose, τέρατα (térata) – e fuori dall’esperienza umana. Parlo dei “resti” (termine essenziale per la psicoanalisi) ancora liberi, potenziali, in attesa di nominazione. Parlo di un “paesaggio terzo”, dal limite sfumato e di sottili cesure in marcia di espansione.

L’architettura: confini e limiti

Così come in fisica è avvenuta la dissoluzione degli statuti separati di energia e materia, di corpo e campo e di spazio e tempo, consideriamo un analogo fenomeno, nel campo psichico, tra soggetto e oggetto, tra conscio e inconscio, tra cognizione ed emozione, centro e periferia.

Il limite non è più ‘ciò che non rimanda ad altro’, in architettura ha almeno tre declinazioni. Limite come:

-“margine” che crea ‘internità’;

-“soglia”, come luogo, dinamizzato e instabile, che separa due ambienti;

-infine “zone periferiche”, interstizio, tra: qui colloco le propaggini della città, teatri di frontiera, laboratori dell’imprevisto, luoghi di attesa dell’altro, da recuperare al sogno, alla parola, al senso.

La poesia, il perturbante

Il campo analitico, produrrà squarci di alter-azione nel processo che lì si svolge, includendovi i luoghi silenziosi e bui, a rischio di dimenticanza, dove è indeciso il confine tra il proprio e l’estraneo e “il potenziale” potrà farsi “attuale”.

Ma forse sto allargando troppo il compasso delle metafore … mi rivolgerò allora alla poesia … ecco ci sono ricascata, non mi riesce di rinunciare ad un’altra disciplina, perché ritengo che i territori “trans-” e “inter-” disciplinari siano portatori di nuova conoscenza.

Allora, se la parola fa spesso esperienza dei propri confini, occorrerà resuscitare dalle concavità del silenzio le zone a rischio di estinzione, rispetto ad un sapere che gioca in difesa escludendo alla ragione le estremità desertiche del sentire. La parola analitica deve farsi poesia, reclutando dal “basso” il senso e i sensi perché il simbolo non sia prigione della parola e la conoscenza accolga il mistero e la meraviglia.

La coppia analitica deve lasciarsi alter-are dall’inconsueto e dalle turbolenze anche se il nuovo “diventa facilmente spaventoso e perturbante”.

Fig. N. 4.

Andavo. Andavo

Cercavo dove poter sostare.

Ero ormai sul discrimine.

Dove finisce l’erba

e comincia il mare

(Raggiungimento, ne Il conte di Kevenhüller)

Nella poesia di Giorgio Caproni i paesaggi non si estendono all’infinito ma sono compresi in un “fra”, il confine è determinato dai passi del viaggiatore e la frontiera è “terra di nessuno, uno spazio ‘fra’ due sponde, è la terra che sta ‘nel mezzo’, immersa in un tempo che si dilata mentre si aspetta una presenza, un nemico”.

Fig. N. 5

Ovunque

solo tracce elusive

e vaghi indizi-ragguagli

reticenti o comunque

inattendibili.

Ora

sapevano che quello era

l’ultimo borgo.

Un tratto

ancora, poi la frontiera

e l’altra terra: i luoghi

non giurisdizionali.

(L’ultimo borgo de Il franco cacciatore)

Le frontiere di Caproni sono quei limiti non valicabili dei “luoghi non giurisdizionali”, gli ultimi borghi dell’esperire umano, mentre il confine costituisce quel limen altre-passabile, labile e contraddittorio.

Fig. 6

«Confine», diceva il cartello.

Cercai la dogana. Non c’era.

Non vidi, dietro il cancello,

ombra di terra straniera.

(Falsa indicazione ne Il muro della terra poesie)

In questi versi l’unico confine presente è la parola scritta.

E allora il viaggio della coppia paziente/analista tracimerà le frontiere giurisdizionali io/tu, includendo ciò che avviene “tra” me e te, un “luogo terzo”, un paesaggio emotivo non dato a priori ma generato dai loro passi.

Come segnaposto teorico sul concetto di campo cito solo i Baranger che descrivono la situazione analitica come un campo dinamico e complementare tra paziente e analista per cui nessuno dei due potrà essere capito senza l’altro.
Riolo rimarca il limite del modello relazionale, includendovi quanto resta fuori dalle interazioni divisive paziente/analista. E Gaburri parla di una dimensione “terza”, “emotiva” che
implica gli aspetti arcaici, indifferenziati e preverbali, i pensieri non ancora pensati.

E’ evidente come le teorie di Bion informino il concetto di campo e come l’indicazione a indagare la cesura e il legame rappresenti un gesto innovativo rispetto alla tradizione culturale precedente.

Terzo paesaggio, borderscape, caesura

Il concetto di “Terzo Paesaggio”, mutuato dal paesaggista francese Gilles Clément, ci invita “ad abitare quei luoghi marginali e mostruosi del pensiero ‘abbandonati dall’uomo’ e dal pensiero tradizionale dove, come le erbacce, crescono pensieri queer, non ordinari, che mischiano logica e misticismo”.

E’ da questo nulla che aspira a diventare qualcosa, da questi “luoghi non giurisdizionali”, da sempre terreno di gioco e libertà dei bambini che dovrà ripartire lo sguardo.

Che tipo di paesaggio occupa oggi la psicoanalisi attorno a questo incolto (friche) psichico, a questi resti, scarti, che da sempre abitano il confine? Credo sia proprio dal borderscape della psicoanalisi che possano nascere nuovi pensieri e visioni dell’umano. Esporto dalle scienze sociali questo termine che rappresenta uno “spazio non statico ma fluido, attraversato da una pluralità di corpi, discorsi, pratiche e relazioni che rivelano continue ridefinizioni e ricomposizioni delle divisioni tra dentro e fuori, cittadino e straniero, ospitante e ospite . Il borderscape non è un “luogo nel visibile” ma ci permette di “accogliere” le nuove forme di appartenenza nella loro complessità, “anziché continuare a negare, escludere o ‘escludere-includendo’, in epoca di globalizzazione e flussi transnazionali”, a patto di munirci di uno sguardo ‘strabico e multiprospettico’.

Il borderscape può contribuire al concetto di “campo” che includa quanto resta fuori dagli statuti separati di “conscio e inconscio, soggetto e oggetto, cognizione ed emozione”.

Nell’enigmatica conclusione di Caesura Bion, riformulando l’affermazione di Freud1, allude ad una continuità nel campo psichico, oltre le discontinuità delle categorie fenomenicamente visibili. Ribattezzo la caesura di Bion il borderscape della psicoanalisi, per un arricchimento reciproco dei linguaggi e dei saperi.

Freud2, ci invita a rendere conscio l’inconscio per colmare le lacune della coscienza, prosciugando l’inconscio, come la civiltà ha prosciugato lo Zuiderzee e Fachinelli afferma “Com’è angusta, soffocata la metafora freudiana del ‘salotto’ (borghese) separato dall’ ‘anticamera’. Triste come la sua casa in Berggasse 19, con la finestra dello studio rivolta ad un muro di cemento. Eppure, anche lì, anche davanti a quel cortile senz’alberi, Freud sapeva che c’era il mare” (La mente estatica).

Paesaggi dell’ombra

Propongo “uno spazio per una vista che non sarà più uno spazio dinanzi ad uno sguardo” (J. L. Nancy), ma uno sguardo che sveli un paesaggio in ombra, inclusivo dell’anima (Bergman, Antonioni) e del mistero. Oltre l’orizzonte di un’impostazione difensiva, proviamo a osservare “verso il mare, senza difese” e senza la paura di esporci alla sorpresa e alla meraviglia consapevoli, freudianamente, che altro da ciò che si cerca e altrove emergerà, fuori dall’indagine poliziesca di un’analisi volta al solo rinvenimento delle tracce delittuose recintate dalla relazione io-tu.

Napoli Porosa e Millepiani

Le geografie della terra sono inseparabili da quelle della mente”, scrive Lingiardi (…) e i luoghi che amiamo sono una scoperta e un’invenzione, li possiamo trovare perché sono già in noi”.

Fig. 7

Gioconda

E tua madre, è un paesaggio o un viso? Si chiedono Deleuze e Guattari in Millepiani.

Il viso ha un correlato di grande importanza, il paesaggio, non c’è viso – dicono – che non celi un paesaggio sconosciuto, inesplorato e non c’è paesaggio che non si popoli di un viso amato o sognato, che non sviluppi un viso a venire o già passato.

E non sono soli:

-Verlaine, in Feste galanti, dice: La vostra anima è un paesaggio scelto.

-Sonno e veglia non sono due parti della vita – afferma Zambrano – perché la vita non ha parti bensì luoghi e volti.

-Rilke afferma che nei paesaggi senza figure tutto sembra parlare di colui che li ha visti.

-e Pontalis: “Ci vogliono parecchi luoghi dentro di sé per avere qualche speranza di essere sé stessi” (L’amore degli inizi).

Esiste un legame tra desiderio e paesaggio che ci porta avanti “verso un tempo utopico” o indietro “non so verso quale regione di me stesso” ci dice Barthes (Incidenti). Egli parla del deja vu di fronte a paesaggi prediletti e per Freud il luogo certo in cui siamo già stati è il corpo materno e la località nota è il genitale della madre.

Ognuno guarda i paesaggi senza esaurirli con lo sguardo. Viviamo lo spazio esterno attraverso una relazione che implica il nostro mondo psichico e fisico, la nostra memoria, il nostro corpo. Guardare un paesaggio coinvolge l’intera vicenda identitaria, l’intero viaggio esistenziale di ciascuno. Qualche volta l’Io diviene un’immensa sfera luminosa contenente l’infinita varietà di paesaggi del mondo: lo “spazio interiore del mondo” di cui parla Rilke. Qualche altra volta l’interno sembra dissolversi nell’esterno e l’Io si sente disperso all’infinito.

Tutti i paesaggi ci parlano di un panorama comune che riguarda l’ origine. La nostra vita si estenda tra un’origine e una destinazione, siamo tutti esuli e migranti, abitati da una sorta di Nostalgia delle origini che proviamo a ricercare in paesaggi anche ostili e paurosi.

Ci sono luoghi nel mondo che danno forma a qualcosa che è in noi e che ci accomuna: un ritorno all’Io-piacere originario, alla pienezza svanita della fusione con il corpo materno (Freud)? ma anche alle angoscie del trauma della nascita (Ferenczi)? Oppure si tratta di riunirsi con un oggetto interiore meraviglioso e atroce dove tempo e spazio sono aboliti (momento estetico di Marion Milner)? Ma può bastare così.

Parlando di origine penso a Napoli (anche a Matera) e a un aggettivo … poroso, a Napoli porosa, il breve saggio di Walter Benjamin dove il concetto di «porosità» diverrà un paradigma di “compenetrazione” tra soggetto e luogo, fra tempi e luoghi distanti .

Foto N. 8

Thomas Jones dipingeva muri di tufo, il muro nel bloccare la vista di Napoli la fa supporre al di là di esso, attraverso le tracce di esseri viventi e una finestra-feritoia.

La porosità indica diffusione, disseminazione tra luce esterna e buio interno, tra pubblico e privato, strada e domicilio, feriale e festivo, giorno e notte, rumore e silenzio, sacro e profano. Tutte queste polarità tracimano ogni confine permeandosi l’un l’altra. Poroso è un attributo cavato direttamente dal tufo delle case partenopee, “quella pietra di cui a Napoli – secondo Erri De Luca – è costituita la stessa materia della voce”.

Ogni affare privato è inondato dalle correnti della vita pubblica come da una marea. L’esistenza, che per i nordeuropei è la più intima delle faccende, qui a Napoli diventa un fatto collettivo”.

Veri e propri laboratori di questo grande processo di permeazione sono i caffè”.

Aggiunge: “Come la pietra, così anche l’architettura di Napoli è porosa. Nessuna situazione è pensata una volta per sempre. Nessuna figura reclama il suo ‘così e non altrimenti’”.

La casa è un serbatoio da cui senza sosta si riversano all’esterno. La vita strabocca non solamente dalle porte, né staziona sulla soglia. Le stesse attività domestiche escono fuori sul balcone e sporgono come piante da vaso. Anche la strada irrompe nel basso. La miseria ha portato a un’espansione dei confini, riflesso della più accesa libertà di spirito. Dormire e mangiare sono occupazioni senza orario, spesso prive anche di un luogo”.

Il prima a Napoli, come per i paradossi della fisica, non viene sempre prima del dopo, l’effetto dopo la causa e centro e periferie non sono luoghi statici. Nel campo psichico, come a Napoli: “tutti gli elementi appaiono sempre nella forma di una compenetrazione intensiva, non si lasciano cogliere nella loro separatezza, ma solamente come il tessuto delle loro relazioni” (saggio su Holderlin). A Napoli è un paesaggiare nel mondo interno. Se Roma, per Freud, è la metafora della psiche, Napoli è la psiche.

Leucippo e Democrito “furono i primi – dice B. – a concepire l’intera materia come porosa. Quello degli atomisti è un mondo spugna o un mondo-tufo, ove il sole è come la pietra pomice e la lingua la parte più porosa del corpo umano”.

Per Benjamin “Costituire poroso il mondo – nel costante esercizio di compresenza e permeazione degli elementi che il potere tiene separati – rappresenta un compito rivoluzionario” .

Conclusioni

Fig. 9

E ora che avevo cominciato

a capire il paesaggio:

Si scende”, dice il capotreno.

È finito il viaggio”.

(Giorgio Caproni, Disdetta)

Con i concetti di campo e porosità siamo tra il mondo del sogno e quello della veglia. Ma la simbologia travalica le esperienze del singolo sognatore: “La preistoria cui il lavoro onirico ci riconduce è di due specie: in primo luogo la preistoria individuale, l’infanzia; in secondo luogo… anche quest’altra preistoria, quella filogenetica.”

E allora Mattia Pascal lo ritroveremo forse nel sogno … perché secondo un’altra bella metafora di Freud:

“Ciò che un tempo imperava sulla veglia, quando la vita psichica era ancora giovane e inesperta, sembra relegato nella vita notturna; pressappoco come nella stanza dei bambini ritroviamo le armi primitive, l’arco e la freccia, deposte dall’umanità adulta”(1899).

1 “Vi è una continuità molto maggiore tra la vita intrauterina e la primissima infanzia di quanto non ci lasci credere l’impressiva cesura dell’atto della nascita” (Inibizione sintomo e ancoscia).

2 “Wo Es war, sollIchwerden”.