Report di Nodi in Psicoanalisi – Destini delle anatomie, effetti delle assegnazioni
15 marzo 2025 di Mario Sasso
Report di Nodi in Psicoanalisi – Destini delle anatomie, effetti delle assegnazioni.
15 marzo 2025
Mario Sasso*
Il 15 marzo 2025 si è tenuto a Napoli, presso la sede del Centro Napoletano di Psicoanalisi, in via
Medina, il primo incontro della Serie dei Nodi in Psicoanalisi, che costituisce una tradizione della
programmazione scientifica dello stesso Centro e che inaugura il calendario scientifico promosso
dal nuovo esecutivo. Nel corso dell’evento dal titolo “Destini delle anatomie, effetti delle
assegnazioni” Paolo Cotrufo e Gemma Zontini con Vincenzo Rapone e Sergio Benvenuto hanno
discusso intorno al testo “Effetto Queer. Un dialogo mancato sui destini della sessualità”, alla
presenza del curatore Giovanni Torti.
Virginia De Micco, nuovo segretario scientifico del Centro, ha introdotto la giornata e coordinato
gli interventi. Nella sua presentazione ha ripreso il saggio freudiano “Alcune conseguenze psichiche
della differenza anatomica dei sessi”, del 1925, ricordando come sia situato nel Corpus delle Opere
tra “La negazione” e il successivo “Inibizione, sintomo e angoscia”, e mostrando come
l’interrogativo posto da Freud sulle conseguenze psichiche della differenza anatomica prenda le
mosse dalla registrazione di un “rigetto”, appunto il rinnegamento. Il lavoro predetto è stato inoltre
oggetto di studio del primo incontro del “Laboratorio di letture freudiane”, inaugurato dal Centro
Napoletano proprio quest’anno. Nel testo, come noto, Freud si trova a interrogarsi su come il
bambino e la bambina inaugurino e abbandonino, differentemente tra loro, il complesso edipico in
relazione alla questione dell’evirazione. Se la madre è il primo oggetto d’amore per entrambi, la
bambina deve però compiere un percorso più ampio rispetto al maschietto, per arrivare a sostituire
la madre con il padre, per arrivare così a effettuare la scelta dell’oggetto. È in forza del
riconoscimento della ‘differenza anatomica’ col maschio, che la bambina sperimenta l’invidia del
pene, che se da un lato la accosterà a un sentimento di inferiorità per quanto le manca, dall’altro le
consentirà di ripudiare l’onanismo maschile, consentendole di abbandonare la madre per
l’insufficienza anatomica che le ha fornito in quanto donna. La bambina potrà così consentirsi di
recuperare il pene attraverso l’equazione per cui la nascita di un bambino lo verrebbe a rimpiazzare.
Freud in questo lavoro avanza delle ipotesi sulla funzione del complesso di evirazione
nell’introdurre alla situazione edipica la bambina e nell’estromettere dalla stessa situazione il
bambino, supponendo in funzione di tale processo il destino, altresì, dell’instaurazione e della
caratterizzazione dell’istanza superegoica. È in questo testo, come ha ricordato De Micco, che
Freud si sofferma sulla negazione iniziale, diniego più correttamente, del riconoscimento della
differenza dei sessi sia da parte del maschietto che da parte della bambina, entrambi coinvolti in un
‘rinnegamento’ che riconosce però motivazioni diverse e andrà incontro a esiti differenziati. In che
senso possono essere ripresi i riferimenti al diniego e all’ordine delle fantasie primarie presenti nel
testo in relazione al tema della differenza dei sessi? Il primo conduce evidentemente alla classica
strada del feticismo, in quanto negare l’assenza del pene nella donna fa del feticcio un pene
sostitutivo, e il secondo a quella del trauma: entrambi si inscrivono nel solco della castrazione e
della sua complicata istituzione.
Giovanni Torti ha presentato poi la struttura del libro, che ha visto i tre analisti autori dialogare
intorno al tema proposto dal titolo, con il coinvolgimento di Ale, un interlocutore transgender, che
ha offerto il proprio contributo sulla base della propria esperienza personale.
Sergio Benvenuto, primo autore a prendere la parola, ha evidenziato la complessità della clinica, a
partire, in particolare, dal fenomeno Transgender, soffermandosi innanzitutto sulla difficoltà di
inquadrarne le questioni di fondo alla luce della psicopatologia classica, che sembra impreparata a
cogliere pienamente la singolarità delle differenti manifestazioni in gioco.
Di fronte ai fenomeni di transizione di genere, che rispondono alle incongruenze, alle disforie, ai
rifiuti del corpo, la clinica psicoanalitica, che è una clinica del particolare, può fare affidamento sui
fondamenti della psicopatologia classica nel tentativo di delineare la struttura che sostiene il
fenomeno? L’autore si è domandato anche dell’utilità, forse irrisoria, di ricorrere ad una analogia
con l’operazione psicotica laddove un soggetto pervenga ad agire sul corpo in luogo di un lavoro
che interessi l’Io. Alla luce di alcune esperienze cliniche che testimoniano di delusioni e
ripensamenti, vissuti su uno sfondo nostalgico e depressivo ed emergenti una volta attuata la
transizione di genere, lo psicoanalista si è domandato se fosse possibile ipotizzare che la persona
transgender, più che pervenire a collocarsi stabilmente in un posto – quello maschile o femminile –,
stia invece fuggendo, che “si allontani da” più che “arrivare a”, presentandosi di fatto come un
soggetto in transito. Come concepire, dunque, una clinica del particolare e della sua sofferenza? Di
una sofferenza che – ricorda Benvenuto – è il più delle volte una questione di vita o di morte, che
cristallizza e assorbe su di sé le questioni nodali del Soggetto. D’altronde, l’uso della lingua sembra
porre proprio lo stesso dilemma del suo oggetto: utilizzare il significante “trans” come un aggettivo
o come un sostantivo? Lasciare che sostanzi la cosa in sé o che rimandi ad altro, aprendo una
distanza, una vera e propria intercapedine?
Che ruolo giocano, viene dunque da domandarsi, i processi di nominazione e determinazione, così
come il dilagante acronimato, singolare crasi tra acronimo e anonimato suggerito nel corso della
successiva discussione con la sala da parte di De Micco, nella costante distanza iatale che si
frappone tra il nominante e il nominato? Come conciliare la nominazione, che mira al parziale, col
processo universalizzante che compete alla nominazione stessa?
L’intervento di Paolo Cotrufo si è soffermato, poi, sulla dinamica pulsionale, in particolare in
riferimento al “destino”, riprendendo il testo freudiano citato in apertura si è domandato, posto che
“L’anatomia è il destino”, come scrive Freud, a quali destini vada incontro la pulsione, concetto
limite fra lo psichico e il somatico. Il lemma ricorre, infatti, nei due scritti, citati a più riprese nella
giornata di studio, ossia “Pulsioni e loro destini” del 1915 e “Alcune conseguenze psichiche della
differenza anatomica dei sessi”, di dieci anni successivo. L’edizione francese del primo – nota
Cotrufo – traduce “destini” con avatars e non con destins. La differenza lessicale consente di
rilevare una verità sulla pulsione? Cos’è un avatar e cosa c’entra? Il termine deriva dal
sanscrito avatāra, e indica la reincarnazione di una divinità, in riferimento a Visnù. È possibile
concepire la pulsione – si chiede quindi Cotrufo – alla stessa stregua di una istanza mitica che esige
di reincarnarsi, proprio nella misura in cui esige un inquadramento, un collocamento, un trattamento
ordinante, che non la rende scontata in se stessa e nella sua sistemazione? Del resto è il misterioso
salto dal somatico allo psichico, in cui la pulsione si sostanzia, a possedere una potenzialità mitica,
che costituisce la mira dell’uomo in quanto “essere pulsionale”. Cotrufo, soffermandosi sul termine
Queer, di derivazione anglosassone, che sta per “eccentrico” ed è adoperato in riferimento alla
sessualità, si è chiesto se esso non rimandi forse e assai propriamente a quella perversa e polimorfa
a cui Freud, in chiave sorprendentemente e pioneristicamente queer per la medicina del suo tempo,
ha assegnato la dignità scientifica a partire dai “Tre saggi sulla teoria sessualità” del 1905. Lo
scritto, come noto, mette in discussione l’idea di una sessualità precostituita e data una volta per
tutte, presentando sulla scena l’essenza queer di quella – disorganizzata e anarchica – che non ha
ancora conosciuto il primato genitale, che nell’ottica evolutiva troneggia al culmine dello sviluppo
psicosessuale, ottenendo la riorganizzazione e la riunione delle molteplici pulsioni parziali.
Gemma Zontini ha invece posto in evidenza la differenza che Freud introduce rispetto alla
definizione dell’anatomia. Charcot, apprezzando la clinica proteiforme dell’isteria, aveva introdotto
il concetto di lesione cerebrale dinamica e Freud, suo allievo alla Salpêtrière, poté concepire per la
clinica dell’isteria, con le sue manifestazioni multiformi, una anatomia differente, lontana da quella
della neurologia, lontana cioè dall’anatomia del corpo conosciuto e inteso dalla medicina
ottocentesca. L’anatomia di Freud e delle sue isteriche fu dunque quella popolare – sottolinea
Zontini – che insegue la sua iscrizione nell’Io e nel fantasma. Se il discorso dell’isterica, come
ricorda Lacan, tende a dividere il sapere precostituito, la sua anatomia si fa beffa del tavolo settorio.
Come non concepire dunque il destino dell’anatomia se non in relazione all’Altro? Un’anatomia
estranea al corpo organico: intransigente ed eccentrica, esuberante. L’anatomia popolare, convocata
da Zontini, è quella da rintracciare caso per caso, come nel sogno, transitando per il lavoro delle
rappresentazioni attraverso l’ascolto liberamente fluttuante, neutrale, delle libere associazioni. Sulla
stessa linea, in relazione cioè alla presa psichica del corpo, la psicoanalista ha riflettuto sulla
possibilità di riprendere i fenomeni di protesizzazione virtuale, artificiale del corpo, così come il
ricorso massivo alla chirurgia estetica, nel senso di un rifiuto, di un annullamento della differenza
dei sessi e delle generazioni.
Sulla psichicizzazione del corpo e delle sue funzioni ha insistito anche Cotrufo quando, in un
passaggio successivo, si è riferito al corpo che, nella sua accezione autoconservativa, con le sue
funzioni fisiologiche ‘biologicamente’ intese, si presta da calco metaforizzante, in grado di
strutturare i meccanismi psichici a sua “immagine e somiglianza”. Si pensi, ad esempio, ai processi
di introiezione nell’ambito della più complessa filiera dei meccanismi identificatori.
Vincenzo Rapone, docente di filosofia del diritto, poi, attraverso i riferimenti antropologici e
sociologici sul totemismo, ha ricostruito la profonda embricazione sussistente tra la concezione
della consanguineità nell’istituzione della parentela e la conseguente istituzione di una classe
omogenea di oggetti totemici. Ha evidenziato come il legame tra religione e totemismo, pertanto,
abbia sostanziato il ruolo della divinità nell’istituzione dei legami di parentela e quindi nella
regolamentazione dei legami sociali costituiti intorno alle pratiche esogamiche. Rapone ha
segnalato come per i primitivi mancasse l’idea universale di umanità, così come pure il concetto
della differenza di genere: l’etero-sessualità era garantita dal patto totemico e prevedeva la
possibilità di una unione esogamica, al di là della propria fratria e cioè tra “entità parzialmente
identificate a una specie animale”. Il totem era ben diverso dall’animale totemico che lo
rappresentava in una forma incarnata. Pertanto, secondo tale prospettiva, fu il passaggio dai molti
totem al solo e unico Dio a operare la fondazione dell’umanità, ossia a dotare il totem del carattere
della universalità. Dio, come il fallo della psicoanalisi, funzionò alla stregua di un operatore logico.
Il monoteismo radicalizza e contraddice insieme il totemismo: se da un lato la civilizzazione
procede sulla via dell’esogamia a partire dalla costituzione della famiglia mono-nucleare come esito
del rapporto tra uomo e donna, è pur vero che il clan dei figli di Dio si estende all’intera umanità e
pertanto l’unione dell’uomo con la donna si compie nel pieno di una formula endogamica. Etero-
sessualità da un lato ed omo-sessualità dall’altro, essendo quest’ultima relativa al rapporto
endogamico che si stabilisce sotto forma di “fratellanza”. La nascita di Cristo da una vergine e il
suo sacrificio – il primo sacrificio di un uomo – divengono, così, l’unica e ultima eccezione, a
differenza del sacrificio totemico. Si tratta dell’eccezione che annullerà le altre. Si compie con
Cristo l’intersezione della linea orizzontale e di quella verticale: tutti figli di un solo Dio, tutti
fratelli. Ciascuno, però, figlio di Dio, ma anche figlio materiale dell’unione dei suoi genitori: si
trovano così a mescolarsi una causa formale e una efficiente, un po’ la magia e un po’ la scienza.
Dopo gli interventi dei relatori si è animato un interessante e vivo dibattito con la sala.
Silvana Lombardi ha messo in evidenza il fatto che, se da un lato la madre è il primo oggetto
d’amore per il maschio e la femmina, dall’altro la bambina deve però compiere un percorso più
ampio rispetto al maschietto, per arrivare a sostituire la madre con il padre, cioè per arrivare a
effettuare la scelta dell’oggetto. Lombardi ha sottolineato, in tal senso, come l’isteria si vesta, per la
donna, di una sorta di funzione di attraversamento del proprio complesso edipico. Ha citato il caso
di Anna O. (Bertha Pappenheim), la quale – secondo quanto riportato da Ellenberger – pur dopo la
risoluzione della propria condizione isterica, non solo continuò ad esprimere idee critiche verso i
ruoli di genere, ma arrivò persino a istituire in Germania forme pionieristiche di assistenza sociale
per donne e bambini, ponendo in questione la rigida divisione dei compiti tra maschile e femminile,
di fatto perseguendo la sua posizione sulla strada tracciata dalla sua isteria. L’idea di Anna O.,
secondo cui gli uomini dovrebbero fare i bambini e le donne occuparsi delle funzioni pubbliche,
anticipò del resto le visioni proto-femministe che problematizzano la distribuzione di potere e ruoli
in una società fallica.
Si è anche interrogata sul ruolo giocato, nel presente, da un Edipo che si manifesta in nuove forme,
quando la famiglia cosiddetta tradizionale si modifica nel suo assetto patriarcale.
Se da un lato il declino della funzione paterna tradizionale e della Legge simbolica fallica lascia
spazio a un “Edipo mutante”, più fluido e meno normativo, è possibile rintracciarne, da un altro, i
riflessi nelle nuove soggettivazioni Queer, che non riconoscono più la netta divisione tra maschile e
femminile come unica modalità di accesso all’identità?
Guelfo Margherita ha messo poi in luce come, nel novero della sigla che identifica la comunità
LGBTQIA+, manchi di fatto l’ermafrodito. Quest’ultimo nella sua concezione classica
rappresenta un’unità indivisibile che incorpora entrambi i sessi, un confine chiuso che non ammette
ambiguità. Eppure – afferma Margherita – l’ermafrodito non può dirsi inclassificabile, dal momento
che l’“inclassificabile” è l’opposto di ogni unità fissa, perché accoglie molteplici punti di vista e
rifiuta di essere racchiuso in una sola definizione. In relazione con tale tematica, Margherita ha
richiamato il riferimento nietzscheiano allo Übermensch, che trascende le categorie tradizionali per
affermare una nuova sintesi superiore, l’ermafroditismo su base genetica o endocrina e, infine, il
Brahmacharya, ossia il celibato ascetico nel Tantra e nello Yoga, in cui l’asceta brahmachari cerca
di trascendere la dualità sessuale per raggiungere uno stato superiore di coscienza.
Successivamente, Vincenzo Rapone e Virginia De Micco hanno riflettuto intorno alla tematica della
castrazione e allo statuto del corpo in relazione al dato culturale. Seguendo il solco tracciato
dall’antropologia strutturalista e dalla psicoanalisi, il corpo è sempre inscritto in un ordine
simbolico che lo determina. L’anatomia è perciò costruita culturalmente. L’operazione che consente
di istituire la differenza tra i sessi e le generazioni è appunto la castrazione. Stando agli studi di
Lévi-Strauss, come ha illustrato De Micco, nel “pensiero selvaggio” delle culture arcaiche o di
livello etnologico l’istituzione della differenza dei sessi si serve di rituali e pratiche corporali, tra cui
le modificazioni genitali. In tali contesti, la distinzione tra maschile e femminile non si limita
all’anatomia biologica, ma si istituisce attraverso pratiche che marcano simbolicamente e
fisicamente i corpi, superandone l’ambiguità. Le mutilazioni genitali sarebbero quindi adottate
come dispositivi di istituzione della differenza sessuale e identitaria. Il rito di passaggio segna il
punto di attraversamento dall’ambiguità infantile verso una forma sessuata piena, che la società
riconosce come tale. Pertanto, l’idea di una “castrazione naturale” è in sé contraddittoria, dal
momento che per quanto le mutilazioni si realizzino sul corpo reale, è solo l’ordine culturale
a prevedere la castrazione come concetto operativo. In altre parole, è l'ordine simbolico che
introduce la mancanza nel corpo, perfezionando un rito che consenta l’accesso alla posizione adulta,
sessuata e socialmente riconosciuta. Nelle società pre-totemiche, come ipotizzano vari antropologi, i
riti di mutilazione e marcatura (inclusi quelli genitali) possono essere letti come tentativi di
risolvere l’ambivalenza originaria tra maschile e femminile. L’anatomia non basta a garantire una
distinzione stabile, e dunque l’intervento culturale (incisioni, escissioni, circoncisioni) diventa
un atto fondativo. Il passaggio da “essere” a “dover essere” è qui evidente: il corpo non “è” maschio
o femmina fino a quando non lo “diventa” secondo i criteri della cultura, attraverso l’azione rituale.
Il complesso di evirazione postulato da Freud, dunque, che determina l’inizio o la fine del
complesso edipico, può essere inteso alla stessa stregua dei “riti di iniziazione”, però a livello della
fantasia, laddove risulta operativo l’aspetto fantasmatico dell’ordine simbolico.
Il fallo, in questa direzione, rappresenta un operatore logico di tale processo. Ma cosa c’entra in tal
senso con la castrazione, con il destino della pulsione nonché con la differenza anatomica dei sessi?
Il fallo, in quanto significante della significazione, rappresenta l’elemento cardine del codice
simbolico, che regola l’accesso al linguaggio e all’ordine della realtà. Il fallo istituisce la dialettica
del “sì o no”, marca la “presenza/assenza”, introduce l’ordine della Legge e la possibilità di
decifrare il desiderio. È lo strumento che consente di abbandonare l’onnipotenza immaginaria e
accettare come strutturale la mancanza a essere.
Non si tratta, quindi, solo di “fare bambini” – funzione biologica – ma di rivendicare uno statuto
simbolico di soggetto sessuato, di collocarsi nella rete dei desideri e delle leggi che strutturano la
realtà. Il corpo si presta, ancora una volta, come un calco metaforizzante rispetto alle funzioni
psichiche.
*Mario Sasso, Psichiatra, Candidato SPI