Centro Napoletano di Psicoanalisi

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Resti e scarti: destini dell’umano tra l’originario e l’attuale.

Seminario Intercentri CNP e CPF – 17 Maggio 2025
Report di Maddalena Ligozzi*

La psicoanalisi, ‘inattuale’ per definizione, in che modo pensa, costruisce e decostruisce l’attuale? Per Freud la nevrosi attuale implica una scarica affettiva immediata, che sfugge alla logica simbolica del sintomo e rimette continuamente in gioco la ‘pressione’ di un originario in cui la dimensione dell’inattuale si ripropone con particolare insistenza. In questo senso l’inattuale originario è esattamente ciò che continuamente si attualizza sottraendosi alla temporalità della storia. Esiste per Freud una continuità diretta tra nevrosi d’angoscia e dimensione ipocondriaca, in quanto area psicosomatica. L’attuale si presenta allora come un accesso diretto al corpo, nell’atto, in quanto non soggettivabile, così come l’originario, col suo portato di radicale inattualità, preme incessantemente per cercare una forma di iscrizione nella storia. Attuale ed originario rimandano allora inesorabilmente l’uno all’altro, sia nelle dinamiche cliniche individuali, sia nei processi collettivi sociali e culturali. (De Micco e Ieri)
Sullo sfondo di queste premesse, la giornata inter-centri tra il Centro Napoletano di Psicoanalisi e il Centro Psicoanalitico di Firenze, che si è svolta a Napoli il 17 maggio 2025, ha messo al centro del discorso le aree psichiche e culturali del ‘resto’ e dello ‘scarto’: tutto quello che sembra ‘cadere fuori’ da ogni matrice rappresentativa e da ogni possibilità di riconoscimento storico, mettendo in atto un ‘ritorno’ di ciò che non è mai stato vissuto, eppure non esce mai di scena.
Di fronte a ciò che non è ‘mai accaduto’, come si costruiscono un luogo e un resto, come si mette in forma un paradossale ‘resto di niente’, dove l’irrealizzato possa tornare a prendere forma? Cosa succede nella relazione analitica quando perdura insistentemente la ripetizione e il vissuto di una rielaborazione impossibile, che conduce verso l’interminabilità dell’analisi, svilendone le potenzialità trasformative?
A partire dalla coinvolgente introduzione di Chiara Matteini sull’impasse in analisi, queste questioni hanno preso forma anche attraverso un’appassionata tavola rotonda, che ha visto la partecipazione di Cecilia Ieri, Roberto Musella e Virginia De Micco in dialogo con l’antropologo Fabio Dei.
Chiara Matteini si sofferma sull’impasse, zona apparentemente ferma e inerte nell’analisi, che può in realtà essere intesa come possibile innesco del potenziale trasformativo dell’analisi: occasione attuale di ripresa di qualcosa di originario indefinito, mai vissuto e quindi mai dimenticato.
La decisione di Freud di imporre all’Uomo dei lupi la fine dell’analisi quando sentiva che l’attaccamento alla sua persona si era consolidato, diviene un tentativo estremo di uscire dallo stallo di un’analisi infinita. L’impasse potrebbe essere ripensata allora come il centro di un lavoro analitico che includa le molteplici forme della ripetizione. Essa apre uno spazio tra ripetizione e transfert, che inaugura la possibilità di fare no, per poter poi dire il primo no di fronte ad un ripetersi infinito. Diviene quindi un luogo e un tempo per ciò che non c’è stato. In qualche modo l’impasse circoscrive un originario impensabile, attraverso ciò che l’analisi fa intorno ad esso.
Georges Perec, scrittore francese del secolo scorso, ha intrapreso un’analisi con Pontalis dopo vari tentativi precedenti, forse poco riusciti. Chiara Matteini, ripercorrendo le tracce di questa intensa analisi, si chiede come possa procedere il lavoro analitico se le cicatrici non spariscono mai, e ci mette così a contatto con il lavoro del tempo e con l’idea di una nostalgia impossibile. In analisi l’appuntamento mancato, come il resto di un’analisi, ci confronta con il lavoro del negativo. Le seconde analisi come nel caso dell’Uomo dei lupi ci suggeriscono che le cicatrici non spariscono e che il lavoro analitico procede in modo intermittente.
La metafora della bonaccia che non consente di prendere il largo definisce bene l’impasse, che può essere definita il negativo del transfert. Nel transfert ciò che è accaduto incontra ciò che non c’è stato, quindi il transfert può essere considerato come l’emersione da una zona di vuoto. Prima o poi emerge una necessità che la cura individua al fine di andare avanti: senza la bonaccia non si ritorna, come succede a Ulisse nell’Odissea. Chiara Matteini si chiede se è possibile parlare di assenza di resti a conclusione di un’analisi. Probabilmente no. L’impasse potrebbe avere a che fare con un “troppo pieno” e solo attraverso il transfert si potrebbe delineare la possibilità di costruire la nostalgia per una madre scomparsa come nel caso di Perec.
Cecilia Ieri, a proposito del lasciarsi deformare e assillare in analisi, suggerisce che è questa la strada per costruire un incavo per il vuoto, laddove fare la separazione precede la separazione stessa. Lungo questo solco, associando l’atto analitico all’atto poetico, Cecilia Ieri sottolinea il lavoro dell’ardente pazienza. L’irrealizzato diventa un modo di immaginare l’inconscio e concepire il rischio di interminabilità. Riprendendo il Simposio di Platone, dove Alcibiade passa da un elogio teorico all’elogio per il vicino amore in atto per Socrate, Cecilia Ieri richiama l’eccesso di un affetto, una passione indeterminata che può debordare in un precipitato, un vacillamento tra domanda e desiderio, dove l’irrealizzato è qualcosa che sta sul punto di accadere. Silvana Lombardi riprendendo il discorso della presenza del transfert e del suo negativo, si sofferma sul doppio transfert di Perec e Pontalis. Le parole di Perec: “Quello che dico è neutro” attivano lo sguardo sulla parola assente della scrittura. Un invito a riflettere sul significato del linguaggio e sull’uso delle parole: la parola può essere un atto che si incarna, ma anche diventare un feticcio.
Roberto Musella, riprendendo il discorso di McDougall, descrive un uso del corpo che vuole evitare il lavoro psichico. Se con Freud possiamo dire che la pulsione ha un doppio versante, radicato nel corpo e tendente alla rappresentazione, tuttavia nelle aree delle dipendenze, degli acting e dei sintomi psicosomatici emerge il fallimento della rappresentabilità. Musella considera centrale il fantasma di castrazione, segno della cicatrice della perdita della perfezione narcisistica e, direi, anche dell’onnipotenza infantile. Se il riconoscimento della cicatrice previene la caduta somatica, il suo diniego implica l’inaccettabilità di quello che i sensi vedono. La scissione consente di riconoscere la differenza tra i sessi, ma le fa perdere significato. La perversione può divenire allora una soluzione difensiva, quando l’allucinazione cade nel corpo e risulta difficile accedere alla castrazione e quindi anche alla cicatrice psichica. Seguendo questa linea allora potremmo chiederci se le cicatrici che non spariscono, non siano anche quelle alle quali non si può accedere.
Virginia De Micco ci ricorda che il gruppo sociale persegua sempre proprio le soluzioni che Roberto Musella ha identificato come dimensione patologica nell’individuo. Se il pulsionale rimanda sempre alla dismisura e quindi allo scarto, l’altra faccia dell’umano ricerca l’illusoria perfezione. Nella nuova azione psichica, freudianamente intesa come unificazione sotto l’egida del narcisismo, l’Io deve assumere un’immagine di sé amato, come unitaria, solo così può vincere quel senso di imperfezione e di frammentazione. Questa forma unitaria idealizzata necessaria per dare coesione e ‘armonia’ al senso di sé produce però uno scarto che andrà a costituire varie forme di oggetti-scarto, per altro verso indispensabili ai funzionamenti collettivi, come ad es. le ritualità legate all’istituzione del ‘capro espiatorio’ mostrano. Alla base delle configurazioni culturali e della simbolizzazione c’è sempre la sublimazione. Ma nelle istituzioni, dove prevale il diniego e la scissione, continua ad esserci comunque una meta sessuale. La simbolizzazione ci aiuta a rappresentare la mancanza d’essere dell’umano. Il corpo sociale, come il corpo umano, esprime negli atti ciò che non riesce a rappresentare. Ad esempio nei gruppi sociali le incisioni corporee (le circoncisioni e altre mutilazioni corporee) entrano in una ritualità peculiare e nel modo di funzionare di un gruppo sociale e culturale fungendo da collante identificatorio . Lo sgomento nell’osservare dal di fuori queste incisioni nel corpo emerge quando non si conosce la forma di simbolizzazione di quel gruppo.
A proposito di antichi riti radicati nel passato, Fabio Dei ricorda gli studi demartiniani sulla Taranta, che si colloca in un orizzonte metastorico: non è solo una danza, ma un rito di guarigione, un modo per esorcizzare le tensioni. Il tarantismo ci mostra il lavoro del corpo: l’inconscio, come il morso della taranta, si manifesta come sintomo in un gruppo culturale. Fabio Dei si inserisce nella tavola rotonda, descrivendo i cambiamenti delle logiche del potere e dei meccanismi di persuasione socio-culturali e presentandoci una serie di paradossi. Coesistono visioni apocalittiche con le quali rischiamo di colludere, accanto ad una diffusa nostalgia di “come erano le cose una volta”, ma ci troviamo anche in un’epoca dominata da terrori fondamentali (il nucleare, la pandemia). Da un lato emerge il bisogno di difenderci da un futuro incerto e dall’altro l’idea di un passato che non passa. L’idea di vivere come se fossimo nel mito più che nella realtà storica coesiste con il dato di fatto che siamo immersi nella nostra storicità, consapevoli della destinazione umana di tutti le realizzazioni culturali.
L’obiettivo di Ernesto De Martino di fornire un orizzonte di riscatto per le culture subalterne del sud sembrerebbe ‘inattuale’ oggi, secondo Dei, dal momento che tutti possono prendere voce da soli attraverso i social media e molte volte i gruppi sociali non si sentono rappresentati dagli intellettuali, che in passato fungevano da mediatori tra le masse e i politici, mentre la memoria collettiva sempre più spesso si costruisce e si istituisce attorno al “paradigma vittimario” che diventa fondamentale luogo di identificazione collettiva. I programmi politici fanno molto leva sulle emozioni arcaiche che si sviluppano nei grandi gruppi, specie nei contesti in cui si propaga la paura per via di una diffusa intolleranza verso gli altri, verso gli stranieri in particolare. Accanto a questi coesistono movimenti, apparentemente contrapposti, che mirano ad eliminare il termine “razza” dalla Costituzione Italiana perché viene ritenuto un modo essenzializzante di pensare alle differenze. Allora i resti e gli scarti hanno senz’altro a che fare sia con la cultura popolare che con la cultura istituzionale, con le regole istituite dallo Stato come con quelle dettate dal mercato, dove prevale uno scambio regolato da domanda e offerta: il valore del dono nella costruzione delle relazioni sociali resta allora con tutta la sua forza, accanto al resto e allo scarto, sue controparti ineliminabili, come hanno sottolineato nella discussione anche Paolo Cotrufo e Silvana Lombardi.
Virginia De Micco ricorda che Mario Vegetti, storico della filosofia, diceva che, nella costruzione dell’identità greca, in particolare della razionalità e dell’etica, la dimensione universale-ideale è in realtà costruita grazie allo scarto di intere ’categorie’ di individui (tra cui le donne, gli schiavi e i barbari). Quando l’ideale vuole essere fatto coincidere con l’universale si corre allora il rischio di una profonda mistificazione, oppure al contrario se l’universale-ideale vuole essere massimamente ‘inclusivo’ corre il rischio di implodere: ecco che allora le vittime diventano degli oggetti idealizzati cui vanno garantiti diritti universali e che diventano unica fonte di identificazione per interi gruppi sociali, assumendo uno statuto mitico più che storico. Possiamo pensare quindi alla monumentalizzazione come ad un processo che costruisce una dimensione simbolica proprio laddove c’è un nucleo intrasformabile.
Nelle sue conclusioni Stefania Nicasi, ricordandoci che Freud ha dato dignità scientifica agli scarti (lapsus, atti mancati), ci propone creativamente alcune funzioni “scarto” dal valore storico-culturale: dai manicomi, un concentrato di vite distrutte e scarti di tutto, al Freeganismo, uno stile di vita anticonsumista che promuove il riuso di resti e scarti. Si tratta di modelli interessanti del processo secondo cui ciò che avanza in qualche modo fa avanzare, attraverso il lavoro creativo costruttivo nell’alternarsi di catastrofe e di rinascita.
Nel pomeriggio il caso clinico di Maria Luisa Califano mi è sembrata la naturale conclusione dello scambio teorico-clinico della mattina: una giovane donna, seppur tormentata da dilemmi sulle sue origini, non riesce ad andare in fondo per ascoltare la sua domanda su quell’originario, che si configura come un vuoto primario, che sfugge al lavoro analitico perché si colloca ai primordi dello sviluppo psichico. Solo dopo molti anni, un nuovo nesso, quando la sua analisi è conclusa, conduce la donna verso la scoperta. Sente allora la necessità di portare il resto dell’analisi e in questo incontro con la sua analista dichiara di aver scoperto di essere stata adottata, ma in fondo a posteriori si potrebbe dire che in qualche modo lo aveva sempre “saputo” perché era inscritto nel suo corpo. Accanto agli sviluppi della sua analisi che l’avevano spinta a costruire nuovi e vitali legami, questa dimensione era rimasta silente e inaccessibile, perché all’epoca sarebbe stato traumatico pensarsi come una “figlia scartata”, un elemento difficile da significare per l’Io fragile della paziente.
Se dovessi individuare una dimensione trasversale ai diversi livelli del discorso di questa giornata, allora penserei al corpo, teatro di espressione di quanto è irrappresentabile, l’attuale e l’originario, e quindi l’inconscio. Nel corpo, abitato primariamente dai livelli arcaici dello sviluppo protomentale, nello stadio dell’Io-realtà primordiale (Freud, 1923), sono iscritte le identificazioni primarie individuali e collettive, le cicatrici che non sono state simbolizzate. Probabilmente al corpo si riferiva Freud nella sua enigmatica espressione “la psiche è estesa, ma di ciò non sa nulla” (Freud, 1938).
Allora se la rovina evoca il senso di bellezza perché si possono rintracciare i segni del tempo e tracciare a ritroso quello che era stata una volta, le macerie danno il senso di una distruttività che ha agito un totale disimpasto pulsionale. Allora potremmo dire che anche la precarietà e la caducità del corpo-mente può recare in sé entrambi questi scarti e questi resti, mettendoci a contatto con la maceria o/e con la rovina. In analisi continuamente contattiamo livelli di frammentazione dove accedere al processo del lutto è impossibile e livelli di dolore che ci consentono invece di avvicinarci ad una perdita che può essere rappresentabile.

*Maddalena Ligozzi, Psicoanalista, Membro Associato SPI-IPA, Tesoriere CNP 2025-2028

Riferimenti bibliografici
S. Freud, 1938, Risultati, idee, problemi, in O.S.F. 11
S. Freud, 1923, L’Io e l’Es, in O.S.F. 9