Erranze. Tra “fautographie” e psicoanalisi
Floriana Sarracino*
02/06/2025
C’è un’unica cosa in cui sono stato di fatto scrupoloso:
nell’essere scrupolosamente impreparato.
Alfred Stieglitz
Fai come il lanciatore di coltelli, che tira
intorno al corpo. […]
distraiti dal vocabolo solenne, già
abbuffato,
punta al bordo, costeggia.
Il lanciatore di coltelli tocca da lontano,
l’errore è di raggiungere il bersaglio, la
grazia è di mancarlo.
Erri De Luca
Era il 1913. Jacques-Henri Lartigue, giovanissimo eppure già da tempo appassionato, nonché esperto di fotografia, stava assistendo al Gran Premio dell’Automobile Club de France. Scattò una foto all’auto n.6 di Maurice Croquet in corsa [Fig.1]. Mentre la Th. Schneider sfrecciava, lui, già posizionato, realizzò un gesto allineato e rapido, ma non abbastanza. Il risultato fu dichiarato un totale insuccesso (Chéroux, 2003). L’immagine conteneva una serie di elementi che, all’epoca, venivano considerati come noti e banali prodotti di errori tecnici: un evidente difetto di messa a fuoco, un’inquadratura sbagliata che aveva tagliato fuori buona parte del soggetto principale, la figura massicciamente deformata. Eppure, quello scatto aveva una potenza simbolica indiscutibile. Lartigue, attraverso quegli incidenti nell’esecuzione fotografica, aveva colto non solo il movimento intrinseco a quell’istante, ma quello di un’epoca intera. L’umanità sfocata sullo sfondo come risucchiata nel flusso del progresso, arretrata rispetto ad un tempo avvertito evidentemente in accelerazione, e l’impossibilità di afferrare del tutto la realtà (interna ed esterna), per cui una parte di essa, forse più che mai, cadeva fuori dal margine di pensabilità.
Sarà il movimento futurista – si pensi, ad esempio, alla celebrazione della potenza, della velocità, della tecnologia che erompe, tra le altre, da opere come quelle di Giacomo Balla dedicate alla Velocità d’automobile – a raccogliere quanto Lartigue e i codici dell’iconografia fotografica sua contemporanea avevano, almeno momentaneamente, rigettato. Dopo alcuni anni, quello scatto del 1913 – guarda caso, accuratamente conservato dall’autore – fu inteso come geniale, e la sua riproduzione crebbe a dismisura.

Qualcosa di simile accadde per le fotografie di Karl Blossfeldt [Fig.2-3]. Centinaia di scatti realizzati a fiori e piante con ingrandimento e nitidezza stupefacenti per il suo tempo (fine ‘800/inizio ‘900), e che, in modo insperato, si emanciparono rapidamente dallo statuto di “tavole botaniche” per assumere valore artistico ad elevata potenzialità proiettiva, come Benjamin (1931, p.17) non mancò di notare: «La natura che parla alla macchina fotografica è diversa rispetto a quella che parla all’occhio; diversa anzitutto perché a uno spazio intessuto consapevolmente dall’uomo ne subentra uno elaborato inconsciamente. Se è normale rendersi conto, sia pure sommariamente, dell’andatura delle persone, di certo non si sa nulla della loro postura nella frazione di secondo in cui “allungano il passo”. La fotografia con i suoi mezzi ausiliari – il rallentatore, gli ingrandimenti – può rivelarcela. Solo con la fotografia facciamo esperienza dell’inconscio ottico, come solo la psicoanalisi ci dischiude l’inconscio pulsionale. […] Così Blossfeldt, nelle sue straordinarie fotografie di piante, ha reso visibili negli esquiseti antichissime forme di colonne, nella felce il bastone pastorale, nella gemma del castagno e dell’acero, ingrandita dieci volte, certi alberi totemici, nel cardo dei lanaioli il traforo gotico».


Quello di Lartigue e Blossfeldt sono tutt’altro che casi isolati. Si pensi, ad esempio, a Daguerre e alle prime lastre fotografiche “popolate da fantasmi”, le vetrine di Atget disseminate di riflessi, le solarizzazioni di Man Ray. Essi rientrano a pieno titolo in quella che diventò nota come fautographie (dal fr. faute, errore). Piccoli incidenti tecnici, imprevisti, imperfezioni che, a dispetto di una loro troppo frettolosa testimonianza d’insuccesso, si rivelano invece preziose occasioni di scoperta, inaugurando nuovi modi di conoscenza e nuove forme espressive. Un caso banale diventa così un’epifania inattesa. Nella storia della scienza, come pure in quella dell’arte, sono più che frequenti gli esempi illustri di queste forme di serendipity, ossia quella sorta di capacità di trovare cose che non si stavano cercando attraverso l’improvvisa – o almeno apparentemente tale – «intersezione di due piani: quello razionale della sagacia e quello per definizione irrazionale del caso» (Garella, 2006, p.26). L’istante in cui le cose diventano forme, in cui la scoperta e l’invenzione, il trovato e il creato (Winnicott) s’incontrano, seppur in una coincidenza mai perfetta, mai del tutto puntuale. Non è lontana la tyche di Lacan (1973, p.52), «l’appuntamento a cui siamo sempre chiamati con un reale che si sottrae». La foto di Lartigue, nel tentativo di fermare il tempo e catturare la realtà del momento, ne disvela una porzione più ampia: la sua natura irraggiungibile, inassimilabile, che non può che restare al di fuori dell’inquadratura, oltre il campo dello sguardo. Lo fa attraverso un errore che non è un semplice sbaglio, ma un varco – nel momento in cui, inteso come atto mancato, lascia intravedere qualcosa del mondo interno dell’autore – e una costruzione, quando, a posteriori, quell’immagine potrà essere inserita in una rete di senso più ampia e più pronta ad accoglierne la portata.
In questo senso, l’incongruo che coglie impreparati, il sopraggiungere inavvertito di un elemento dissonante, diventano opportunità, e gli errori, intesi come verità di ieri che tentano una risignificazione nell’attesa del futuro, sono ciò che muove il tempo e che fa da vettore epistemico, in un andirivieni inesausto. Conoscenza ed errore, inedito e già noto, slancio e impedimento, provengono in realtà dalla stessa fonte, e sono inconcepibili l’uno al di fuori dell’effetto dell’altro (Mach; Canguilhem). D’altra parte, è questo il nucleo della “rivoluzione freudiana” che ha strappato all’insignificanza e alla casualità acefala le petite misère dell’umano: lapsus, dimenticanze, atti mancati, psicopatologie, hanno trovato finalmente diritto di cittadinanza nei territori scientifici. Non solo. Freud ha tenuto insieme la natura duplice dell’errare, per cui sbagliare e vagare, cadere e sognare, fantasticare e teorizzare, si alimentano vicendevolmente. Siamo nell’erraten metapsicologico freudiano. Le idee precipitano (einfall) all’interno di un apparato teorico-pratico di metodo e tecnica, attraverso «un vagabondaggio psichico, un’erranza necessaria» (Donnet, 2005, p.101), e possono essere così articolate, costruite, animate, generando nuovi esiti e configurazioni: «Quando io ripercorro i casi che compongono la storia del mio lavoro, ritorno sempre a questo punto: che ciascuna concezione si è presentata a me direttamente come il precipitato di un grande numero d’impressioni nate dall’esperienza. Più tardi, ogni volta che io ebbi l’occasione di riconoscere che una concezione era erronea, la sua sostituzione con una nuova, e spero, migliore, si è sempre prodotta nello stesso modo: fondata su esperienze antiche o nuove, un’idea mi veniva in mente [einfallen] ed è a questa idea che io sottoponevo allora il mio materiale» (Freud,1930, in Vassalli, 2001, p.962). Questo andamento erratico che s’imbatte, poi, d’un tratto, in un’“apparizione” del pensiero è presente in tutta l’opera freudiana, come, ad esempio, quando in riferimento alla “veggenza” di Charcot, scriveva (Freud, 1893, p.106): «Non era un riflessivo né un pensatore, piuttosto una natura artisticamente dotata o, come diceva egli stesso, un visuel, un visivo. Quanto al suo metodo di lavoro, ecco quel che mi raccontava. Era solito osservare attentamente, e più e più volte le cose che non conosceva, rafforzando così l’impressione che ne aveva tratto: giorno per giorno, fino a che non gli si dischiudeva, all’improvviso, il loro intimo significato [corsivo mio]» (Freud, 1893).
Queste parole ricordano l’intensità con cui Bailly (2008) descrive la fotografia e il tentativo di catturare l’impronta del reale: «Fragile segno di esistenza, fragile segno indicante che qualcosa è esistito prima che la marcasse, la fotografia […] agisce direttamente e silenziosamente come ciò che sa o può far echeggiare l’intimo delle cose [corsivo mio]».
Appare chiaro come l’immagine fotografica sia molto di più e molto altro di una mera riproduzione della realtà, e neppure la sua sola rappresentazione, ma contiene in sé un movimento molteplice: è allo stesso tempo difesa dalla realtà e sua creazione (Balsamo, 2025), tentativo di delimitazione, traduzione, rilancio. Da un lato, allora, potremmo dire che se il taglio operato dall’inquadratura fotografica, è al tempo stesso ferita e cicatrice agita dal e nel reale, squarcio e rammendo, dall’altro, il gesto fotografico mira ad afferrare l’assenza. È uno sguardo obliquo – come forse avrebbe detto Robert Doisneau, fotografo “pescatore di momenti”, come amava definirsi – che cerca di interrogare quello spazio invisibile, quell’intervallo minimo tra la presenza e la perdita, e nel momento stesso in cui lo fa, lo crea.
Si tratta, allora, di poter vedere non solo il non ancora osservato, ma pure l’inosservabile; poter vedere a partire da un punto d’osservazione sospeso tra l’attesa e la sorpresa, tra il già là e il non ancora. Attimi di “disorganizzazione controllata” che aprono il campo del possibile e che rendono molto vicini il ricercatore scientifico, il poeta, il fotografo, l’artista in genere, l’analista al lavoro nella pratica clinica e nel suo teorizzare. In quest’effetto di cattura non può essere estratto un rapporto di causa ed effetto, poiché quella parte di realtà che si tenta di raggiungere e “addomesticare”, ha già essa stessa interrogato e animato qualcosa nell’osservatore. La captazione di scarti o di resti minimali, l’andamento fluttuante nell’esplorazione della realtà, il sostare su approdi incerti, tratteggiano un processo d’avventura, nel senso che qualcosa, d’un tratto, ci avviene. È quanto Roland Barthes (p.20-21) ha chiarito bene: «La tale fotografia che io distinguo dalle altre e che amo non ha nulla del punto lucente che oscilla davanti agli occhi e che fa dondolare la testa; ciò che essa produce in me è esattamente il contrario dell’ebetudine; essa è piuttosto un’agitazione interiore, una festa, un lavorio se vogliamo, la pressione dell’indicibile che vuole esprimersi. [..la tale foto] mi anima e io la animo. Ecco dunque come devo chiamare l’attrattiva che la fa esistere: una animazione. In sé, la foto non è affatto animata, però essa mi anima: e questo è appunto ciò che fa ogni avventura».
Ne emerge una dimensione paradossale, «un luogo atopico, punto virtuale, teso tra necessità e impossibilità» (Conrotto, 2000, p.212), esitazione e imprudenza, metodo e ambiguità, errore ed erranza. Finchè l’umano potrà accoglierne il rischio, il margine del possibile resterà mobile e si dischiuderanno ulteriori passaggi conoscitivi. Di certo, è un equilibrio sottile, oggetto di erosioni di varia natura. È solo nella tensione dialettica di quei poli che può conservarsi la vitalità e la soggettività creatrice. L’eccessivo sbilanciamento a favore dell’uno o dell’altro compromette l’esito conoscitivo in vari modi. Se, ad esempio, nello scatto di Lartigue irrompe la coalescenza di più tempi, uno che tenta di farsi passato e un altro che sta sopraggiungendo, come può questa interpolazione conservarsi in immagini generate da un’intelligenza artificiale senza che questo ci interroghi profondamente? Oppure, se l’errare perde la sua componente di erranza, rischia di appiattirsi a puro indizio dirimente tra le categorie del vero/falso, fake/autentico, giusto/sbagliato. Successo/fallimento, invece, diventerebbe l’unica area di senso possibile qualora l’errore rimanga imbrigliato in logiche narcisistiche in cui predomina l’adesione cieca ad un perfectum ideale piuttosto che ad un infectum fecondo. O ancora, se è la processualità erratica a prevalere, è più che prevedibile lo scivolamento verso soluzioni evacuative e non trasformative, dove lo slegamento sfrenato dissiperà le possibilità di tessitura psichica. Affinchè, insomma, si realizzi una creatività illuminante occorre un campo operativo con dei margini teorico/pratici che garantiscano un movimento al loro interno e la loro stessa messa in tensione. Il margine, il bordo, l’inquadratura rendono possibile uno sguardo che cerchi di farsi ogni volta tangente, inattuale, inclinato, divergente.
*Floriana Sarracino, Psicoanalista, Membro Associato SPI-IPA, Segretario Amministrativo CNP 2025-2028
BIBLIOGRAFIA
Bailly J.-C. (2008), L’istante e la sua ombra, Pearson Italia, Milano-Torino, 2010.
Balsamo M. (2025), Il Doppio fotografico. Psicosi, corpo ed opera in David Nebreda, inedito.
Barthes R. (1980), La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1980 e 2003.
Benjamin W. (1931), Piccola storia della fotografia, Abscondita, 2015.
Chéroux C. (2003), L’errore fotografico. Una breve storia, Einaudi. Torino, 2009.
Conrotto F. (2000), Tra il sapere e la cura, Franco Angeli, Milano, 2000.
Donnet J. L. (2005), La situazione analizzante, Alpes, Roma, 2018.
Freud S. (1893), Charcot, OSF, 2, Torino
Garella A. (2006), Serendipity, in F.Conrotto (a cura di), Statuto epistemologico della psicoanalisi e
Metapsicologia, Borla, Roma.
Lacan J. (1973), Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2003
Vassalli G. (2001), La psicoanalisi nasce dallo spirito della «tecnica» greca, in Rivista di
Psicoanalisi, 2004, L, 4