Centro Napoletano di Psicoanalisi

di Fiorella Petrì

Uno spunto per riflettere su vergogna e perversione.

Shame[1], film del 2011 diretto dal regista inglese Steve McQueen, affronta in modo diretto, con coraggio, a volte fin troppo crudamente, la dipendenza dal sesso, una forma di perversione, non solo molto diffusa ai giorni nostri, ma indicativa, dal mio punto di vista, della minaccia dell’eclissi della relazione affettiva con l’altro.

Il tema dell’addiction dal sesso è sicuramente scomodo se non inquietante, e il regista attraverso un’ambientazione perfetta, e delle inquadrature efficaci, comunica allo spettatore il vuoto e l’inconsistenza che pervadono la contemporaneità: una città moderna, New York, un ufficio funzionale con molta animazione, ma nessuno scambio significativo tra i colleghi, un appartamento spoglio, senza anima, proprio come il suo inquilino. Brandon è un uomo d’affari, trentacinquenne, bello ed elegante, che vive in uno stato di totale isolamento affettivo, dominato dalla pulsione sessuale, che lo spinge a continui agiti compulsivi. La vita di Brandon è fatta d’incontri occasionali, frequentazione di prostitute e continue masturbazioni. La sua è una vita soprattutto vuota di emozioni, di sentimenti, di relazioni: l’altro non c’è; l’urgenza e la coazione contraddistinguono le sue condotte sessuali, come se fossero una droga. Anche i dialoghi, quasi inesistenti, testimoniano la povertà dei rapporti relazionali e la sua incapacità a pensare e a comunicare.

Possiamo supporre, come suggerisce la Chasseguet Smirgel (1987)[2], che la ricerca di eccitazione sia l’unico modo, per il protagonista, di evitare il contatto con il dolore psichico, ma, contemporaneamente, è lo strenuo tentativo di evacuare, attraverso degli agiti, la tensione ed il dolore per una ferita narcisistica e un probabile trauma, che non possono essere pensati,  il vivere fuori di sé, allora, potrebbe indicare una soluzione estrema a questo trauma. Brandon è un personaggio anaffettivo, senza storia, si potrebbe definire con Bollas (2001)[3] un normotico, cioè qualcuno che si preclude qualsiasi forma di creatività, e che vivendo nella superficialità, tenta di diventare un oggetto nel mondo degli oggetti. Nella sua pseudo normalità Brandon si rivolge all’altro come se fosse un oggetto inanimato per colmare il vuoto che lo abita: è il suo modo di auto medicarsi (McDougall, 1997)[4]. Per dare un altro senso alla patologia che affligge questo personaggio potremmo seguire l’ipotesi della McDougall che scrive: “un’importante dimensione nell’economia psichica sottesa agli atti dipendenti è il fine di dissipare, il più rapidamente possibile, ogni sentimento di ansia, rabbia, colpa, depressione, o qualsiasi altro stato affettivo che possa far sorgere  tensione o disagio psichico” (2003, pag.137)[5]. Da questo punto di vista, i sintomi perversi, alla stregua di tutti gli altri sintomi, si presentano come soluzioni infantili a un conflitto insostenibile, alla confusione e alla sofferenza mentale, che assumono, però, proporzioni catastrofiche e intollerabili. Potremmo supporre che nell’inconscio non rimosso del perverso c’è un trauma non rappresentabile, forse un bambino violato le cui parole sono rimaste  “sotterrate vive”[6] perché il suo dolore appartiene all’ordine del non rappresentabile ed è, pertanto, inaccessibile al ricordo.

Il protagonista del film è perso in un vuoto conformismo, è sì una personne, ma nell’altra accezione francese di questa parola: è un nessuno, come se la difesa  estrema da lui adottata fosse stata uscire fuori da se stesso.

Avvertiamo tutta la tragicità del personaggio in due momenti particolari del film: quando irrompe nella sua vita la sorella, e quando incontra un’affascinante, dolce collega che cercherà di mettersi in contatto con lui con il linguaggio delle emozioni. Particolarmente espressiva la scena in cui quest’ultima, guardandolo negli occhi, lo accarezza sulla guancia; l’essere visto, sembra per lui assumere il senso di essere scoperto nella sua triste inconsistenza, nella sua struggente fragilità, di cui si vergogna profondamente. L’essere visto esiterà nell’uomo in un momento d’impotenza sessuale, quasi a indicare quanto fragile sia il suo sentimento d’identità  quando è esposto allo sguardo dell’altro.

Mi sembra che nelle persone che soffrono di dipendenza dal sesso, gli agiti erotici assumono una funzione rassicurante circa i propri confini corporei e la propria sopravvivenza psichica, tuttavia l’altro deve essere annullato, perché vissuto come troppo persecutorio. In questi casi, anche uno sguardo amorevole, che segnala la presenza di un’alterità, può essere vissuto come una minaccia catastrofica al proprio narcisismo.

Tornando al film, Carey Mulligan è molto efficace nella interpretazione di Sissy la sorella più giovane di Brandon, una ragazza fragile, insicura dipendente anche lei, non tanto dal sesso o da sostanze, ma dalla presenza dell’altro. Sissy è un personaggio tragico che rappresenta quelle donne che non sanno badare a se stesse e si annullano per amore, in lei riconosciamo tutto il bisogno affettivo negato in Brandon. La ragazza è travolta dalle emozioni, piange, si dispera, mentre il fratello assiste indifferente alla sua sofferenza. Sissy arriva a New York, nell’illusione di ricominciare tutto daccapo, come canta nella sua particolare interpretazione del celebre brano New York NewYork: “if I can make it there I’ll make it anywhere”, con la sua esibizione riesce, anche se solo per un attimo, a far commuovere il fratello. Il suo, come quello di Brandon, è un desiderio di riscatto, l’illusione di una riparazione magica del passato con i suoi fantasmi. Sissy ha la speranza di salvare se stessa e il fratello dallo stato di smarrimento in cui entrambi vivono. La giovane donna chiede al fratello sostegno, vicinanza emotiva, accoglimento, gli ricorda il legame familiare che li unisce e la responsabilità che lui ha nei suoi confronti come fratello maggiore. L’uomo, terrorizzato dalla richiesta di dipendenza e di affetto, sa darle l’unica risposta per lui possibile: il rigetto, la ragazza deve andarsene.

Sconvolto dalle parole della sorella che attingono al registro delle emozioni, dell’affettività e del legame, l’uomo tenta di prendere immediatamente le distanze da lei immergendosi ancora più violentemente in agiti sessuali svilenti, caratterizzati da eccessi, una sessualità omosessuale e orgiastica più che mai intrisa di pulsione di morte.

Il tentativo di suicidio della ragazza sembra l’ultima prova disperata per attirare l’attenzione del fratello. Al capezzale di Sissy scorgiamo, per la prima volta, sul volto di Brandon pena e preoccupazione, e possiamo immaginare che in quel momento egli stia scoprendo, nel guardarla mentre combatte con la morte, quanto loro due fratelli si assomiglino.

Sappiamo che le relazioni fraterne spingono a un continuo mediare tra il bisogno di differenziarsi e l’attrazione a identificarsi, ma entrambi questi movimenti possono suscitare angoscia: ci si può confrontare con l’angoscia di perdita dei propri confini, quando prevale il sentirsi troppo simile; o avvertire una distanza emotiva siderale, quando ci si sente troppo unici e diversi, Brandon sembra oscillare tra queste due forme di angoscia.

Eppure è risaputo che si cresce, soprattutto dall’adolescenza in poi, quando si riesce a correre con qualcuno che abbia lo stesso passo in modo da condividere esperienze di vita ed emozioni. Il rapporto tra fratelli offre questa possibilità; possibilità che, se non colta, rischia di bloccare il processo di crescita facendo rimanere ciascuno invischiato in aspetti narcisistico/onnipotenti. L’ostilità, come rilevava già Freud (1915-1917)[7], è sicuramente il sentimento più presente nel legame fraterno, ma vi sono anche altri sentimenti che animano la relazione tra fratelli che, nella sua complessità viene definita,  complesso fraterno, intendendo con ciò le diverse articolazioni tra desideri amorosi e impulsi aggressivi che il bambino sperimenta nei confronti dei fratelli[8].

Franco Conrotto (2008)[9], riprendendo il pensiero di Lacan, individua nella trasformazione dell’odio in tenerezza il punto nodale del complesso fraterno, trasformazione che getta le basi per ogni forma di legame sociale. Non ci è dato sapere se in Brandon sia avvenuta questa trasformazione. Nella scena finale del film, infatti, il protagonista seduto in metropolitana incrocia lo sguardo di una ragazza, incontrata già altre volte, ed anche se l’uomo appare più provato e sofferente, non sapremo mai se, anche in questo caso, rimetterà in atto i suoi soliti agiti coattivi o si aprirà ad un’esperienza diversa, finalmente ad un’esperienza d’innamoramento.

Autore recensione: Fiorella Petrì – Titolo: Shame
Dati sul film: Regia di Steve Mc Queen , USA, 2011, 99 min. Genere: erotismo, drammatico